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articoli e appunti da franco carlini

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Archive for ottobre 2006

Intervista a Rizzolatti sui «neuroni a specchio»

Posted by franco carlini su 31 ottobre, 2006

Riflessi mentali – Un’intervista con Giacomo Rizzolatti, il ricercatore che ha scoperto i «neuroni a specchio»

Luca Tancredi Barone

La prima settimana del festival della scienza di Genova si è chiusa con le polemiche dell’arcivescovo di Genova Bagnasco che ha attaccato la più importante kermesse scientifica d’Europa sulla base dell’ eccessivo – a suo dire – laicismo che la caratterizzerebbe. Col risultato che ieri il Corriere della sera ne parlava in prima pagina: un risultato che neppure il ministro della ricerca Fabio Mussi con il capello scarmigliato vestito come superman e sospeso a mezz’aria era riuscito a ottenere venerdì scorso. Con più di 43mila biglietti venduti il quinto giorno (l’anno scorso erano stati 38mila) tutto lascia pensare che verranno superate anche le più rosee aspettative, fra palestre di matematica, incontri al caffè, conferenze, mostre, giochi, animazioni e spettacoli teatrali che sono sempre affollatissimi – anche se molti scienziati continuano a stupirsene.Uno dei temi portanti di questa quarta edizione del festival è sugli specchi, a cui sono dedicate ben tre mostre e tre incontri fra neuroscienziati, filosofi, musicisti, scrittori.
Uno dei protagonisti è il neurologo in odore di Nobel Giacomo Rizzolatti, che ha scoperto i neuroni specchio. Una scoperta raccontata assieme al filosofo Corrado Sinigaglia nel libro “So quel che fai – il cervello che agisce e i neuroni specchio”, da poco pubblicato da Raffaello Cortina editore.

Secondo l’indiano Vilayanur Ramachandran, direttore del centro per il cervello e la cognizione dell’università della California a San Diego, quella dei neuroni specchio è una scoperta destinata a cambiare le neuroscienze tanto quanto la scoperta del Dna ha cambiato la biologia.

«Uno non può farsi i complimenti da solo – si schernisce Rizzolatti -. Se cambierà le neuroscienze lo dirà solo il futuro». Di certo comunque ci insegna a guardare la tradizionale distinzione fra mente e cervello in maniera diversa, come ha sottolineato a Genova Corrado Sinigaglia: piuttosto che partire dal nostro pregiudizio su come deve funzionare il cervello a partire dalla nostra idea di mente e di cognizione, la scoperta di come funziona il cervello davvero dovrebbe insegnarci a modificare le nostre idee sulla mente.

Un vero e proprio cambiamento di paradigma scientifico, come lo avrebbe definito Thomas Kuhn, di cui chiediamo conto a Rizzolatti.
«È una scoperta importante – ci risponde – perché sottolinea l’aspetto motorio della nostra cognizione. Rispetto al modello classico delle scienze cognitive, che invece si basano sugli aspetti percettivi, e dunque sul “vedere”, i neuroni specchio ci insegnano che alla base dell’apprendimento c’è l’azione».

Un cervello che agisce e dunque comprende, come scrive nel suo libro…
Alla base della nostra conoscenza c’è il fatto che sappiamo fare delle cose. Da questo poi si costruisce tutto il resto. Se le vediamo fatte dagli altri le comprendiamo. Esistono due tipi di conoscenza: una è scientifica, oggettiva, l’altra è esperienziale. Questa è la nostra vera conoscenza, quella basata sul sistema motorio e sulle nostre esperienze. L’altra è una conoscenza molto importante, ma successiva.

Come avete scoperto i neuroni specchio?
È successo all’inizio degli anni Novanta. Noi studiavamo le scimmie, usando un metodo diverso da quello americano. Piuttosto che studiarle in gabbiette dove dovevano magari pigiare un pulsante, abbiamo cercato di studiare il loro sistema motorio in un ambiente etologico più simile alla realtà. Siamo partiti, al contrario degli americani – che per ottenere i grant per forza tendono a prediligere i paradigmi vigenti – dalla considerazione che probabilmente i neuroni funzionavano in maniera più complicata di quanto non si credesse.


Qualcosa di nuovo infatti lo avete scoperto…

La prima cosa che abbiamo scoperto è che alcuni di questi neuroni non sparavano (cioè si attivavano, n.d.r.) in relazione a un dato movimento (chiudere la mano, piegare il braccio, ecc), ma in relazione a uno scopo (afferrare un oggetto, ad esempio). Una conferma ci viene da un esperimento in corso, in cui abbiamo ideato uno strumento che può essere attivato sia aprendolo che chiudendolo con due movimenti opposti. Ebbene, i neuroni che sparano sono esattamente gli stessi.Ma la cosa più stupefacente che abbiamo visto è che il neurone sparava sia quando la scimmia compiva una azione – portare il cibo alla bocca – sia quando era lo sperimentatore a compierla. Una specie di dialogo fra noi e loro. Una cosa mai osservata prima, che ci lasciò perplessi.

E poi?
All’inizio pensavamo che la scimmia in qualche modo volesse imitarci. Ma la scimmia rimaneva immobile. E soprattutto gli etologi ci hanno detto che le scimmie non sanno imitare. Incidentalmente mi piace sempre sottolineare come l’imitazione sia una cosa bellissima. Prima i bambini devono imitare, solo dopo possono diventare creativi.

Così siete arrivati all’idea del neurone specchio? Un neurone motorio che si attiva sia quando si compie una azione, sia quando la si osserva. Insomma: i neuroni servono per imparare?
Alcuni filosofi non ci amano per questo. Pensano che minimizziamo il ruolo del linguaggio. Noi però non diciamo che c’è una sola maniera per imparare: c’è un meccanismo arcaico che c’è negli animali e c’è in noi. Poi ovviamente ci sono meccanismi di ordine cognitivo superiore che si integrano con questo. Ma grazie al neurone specchio la scimmia non solo capisce quello che facciamo, ma lo può prevedere. Quando mi vede prendere in mano il cibo, nella scimmia sparano anche in successione i neuroni dei movimenti della bocca. In qualche modo dunque una funzione psicologica così complicata come l’intenzionalità può essere spiegata con un meccanismo neurale semplice.

Il comprendere viene prima del linguaggio?
Sì, come avviene per i bambini. Ma il linguaggio si basa anche esso sulla capacità di imitare, che a sua volta si basa sul sistema dei neuroni specchio. Non basta. Oggi stiamo studiando anche i bambini autistici. E stiamo scoprendo che non solo il loro sistema specchio è deficitario, ma anche che hanno una difficoltà nell’organizzare il loro stesso movimento, la catena dei movimenti che negli altri porta all’attivazione dei muscoli della bocca subito dopo aver afferrato il cibo. Una ulteriore conferma del legame fra il movimento, i neuroni specchio e il meccanismo di empatia fra noi e gli altri.
il manifesto – 31 ottobre

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Scienza – Gli steccati del monsignore

Posted by franco carlini su 31 ottobre, 2006

Franco Carlini
Benissimo ha fatto Angelo Bagnasco, arcivescovo metropolitano di Genova a esprimere le sue critiche al Festival della scienza in corso in questi giorni. Non ci metterà piede perché «mi pare un po’ a senso unico, in direzione laicista». Con questa pubblica dichiarazione, argomentata più diffusamente nella lezione teologica tenuta sabato a Sanremo, il prelato ha fatto cadere gli equivoci su cui molti si erano adagiati, laici credenti e non credenti. Ha volutamente demolito la consolatoria idea che tra i due approcci al mondo ci possa essere un dialogo fecondo dove gli uni e gli altri imparano, a partire dalle proprie ricerche e dai propri valori.
Bagnasco, che fu allievo del più anticonciliare tra i cardinali italiani, Giuseppe Siri, rimette le cose a posto (a modo suo) e ci ricorda che si tratta di due grandi narrazioni che entrambe aspirano al rango di verità e che perciò sono, in ultima analisi, tra loro antagoniste. Così come le tre religioni monoteiste restano ognuna convinta di essere la migliore, anche quando dialogano.
La scienza occidentale, a dire il vero, non ha mai avuto questa pretesa, almeno nei suoi cultori più seri. Piuttosto ha sempre sostenuto che le sue sono verità provvisorie, pronte a essere superate, purché ciò avvenga all’interno di un metodo scientifico, appunto. Alcuni tra i ricercatori sembravano aver trovato la pace delle idee dicendo che gli ambiti delle due ricerche sono separati: la scienza si occupa solo del come vanno le cose nel mondo fisico e le religioni semmai si occuperanno dei perché, argomento sul quale la ricerca nulla può dire. I teologi più aperti a loro volta dicevano che se il mondo è stato creato da Dio, allora lo studiarlo è soltanto una buona esplorazione di quel disegno.
Come noto si fa scienza per applicarla al mondo e, prima ancora per amore di conoscenza. Ma a Bagnasco non va bene né l’una né l’altra motivazione: «La ricerca scientifica deve essere ordinata non già all’utilità sociale e non può esserlo nemmeno a se stessa: una scienza del tutto libera, senza nessun vincolo, come oggi si sente dire, è destinata all’autodistruzione».
E’ una tesi pesante, una rivendicazione di egemonia sempre e comunque che non discende da un dialogo nel mondo né da uno interno alla chiesa cattolica: lo conferma il ridimensionamento dei laici credenti al convegno delle chiese d’Italia, in Verona.
Oggi riemergono le offese mai digerite,Voltaire e Darwin, e si rialzano gli steccati con la modernità in nome di verità che autorità autoreferenziali dichiarano indiscutibili. Non ci si stupirà se di fronte a una tale pretesa così manifestamente irrazionale e irruente, scienziati di vaglia come il filosofo Daniel Dennet e il biologo Richard Dawkins abbiano pubblicato libri infuocati in nome dell’«ateismo» (che in America è termine più tecnico e meno connotato che da noi) per esempio scrivendo: «Io attacco Dio, tutti gli dei, qualsiasi cosa di soprannaturale, dovunque e ogni volta che sia inventata» (La delusione di Dio, di Richard Dawkins).

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La gioiosa carica del pesce lento

Posted by franco carlini su 29 ottobre, 2006

Franco Carlini, il manifesto, 29 ottobre, pag.3

Al Salone del Gusto c’è uno stand tutto sommato piccolino, almeno rispetto ai giganti come Lavazza o Parmigiano Reggiano. E’ quello di Slow Fish, dove non c’è quasi nulla se non l’annuncio che nel maggio prossimo, a Genova, ci sarà un salone festoso dedicato al Pesce lento e sostenibile, ma soprattutto azzurro come il Mediterraneo. Fin qua nulla di strano perché c’è un’intera storia, e persino una storiografia, che riportano ai traffici tra il Piemonte occidentale e la Liguria, specie di ponente, con le acciughe che risalivano le valli per farsi bagnacauda e i carretti che tornavano al mare appesantiti di botti di vino rosso. Strano semmai è ascoltare due turiste tedesche che chiedono di conoscere non solo le date, ma persino gli orari della festa del pesce: precisione teutonica, ma segno di interesse vivo già oggi.

Ed è poi la conferma che quel movimento politico-culturale-gioioso che si chiama Slow Food ha una capacità apparentemente inesauribile di gemmare un’iniziativa dall’altra. Ma anche di tenerle collegate, di modo che l’università di Scienze Gastronomiche non sia una cosa da accademici della chimica del cibo, che i contadini di Terra Madre vendano anche fagioli neri e artigianato nel vicino salone mercato, che lo spocchiosissimo Ferran Adria, lo chef catalano ai vertici della classifica mondiale, non disdegni di sedersi a fianco di ignoti cuochi di strada di Ouagadugu (Burkina Faso).

C’è un mucchio di volontariato entusiasta in questo Salone, che comincia alle 6 di mattina sulla piazza della stazione di Bra, dove alcuni pullman caricano centinaia di ragazzi delle scuole e li portano 40 chilometri più a nord, a Torino Lingotto, dove per tutto il giorno saranno la macchina, anzi l’anima organizzativa e gentile, di questo mostro da 200 mila visitatori, ognuno al prezzo pagante di 20 euro. Ma è un’energia volontaria che continua per mille rivoli, così scoprendosi che alcune decine di chilometri più in là, nel Canadese, la cuoca di gran fama Mariangela Susigan (della Gardenia di Caluso) passa la nottata a trasformare 1000 cipolle (ma come le fa lei) per la festa di Terra Madre, essendosi peraltro lei stessa abbinata a un cuoco d’Africa che volentieri ospita in questi giorni.

Altra osservazione vagante: il peso politico di Slow Food è tale che regioni e province sono qui in forze, un po’ cavalcando un costume di massa che è anche elettorato prezioso, e un po’, persino, riuscendo a modificare qualcosa del loro linguaggio. Non tutto per carità: i vizi sono durissimi a morire, e così intercetti spezzoni di oratoria da consiglio comunale, grigi vestiti di grigissimi funzionari, ma infine qualcosa sciogliendosi nel loro agire mediamente triste.

Il contagio è tale che sono rarissime anche le hostess-soubrette agli stand, anche in quelli di marche illustri. Nessuno, per quanto vediamo, ha avuto il cattivo gusto di imporre tubini neri e minigonne a povere belle ragazze impietrite nel sorriso, ritte su caviglie affaticate dal tacco 10. E del resto non si crederà mica che tutti possano prenotare tot. mq. e farsi lo stand che più gli aggrada. Per essere qui come espositori occorre essere su quella linea del Buono, Pulito e Giusto che, da titolo di un libro di Carlo Petrini (Einaudi), è divenuto manifesto internazionale del movimento.

Molto di questo Lingotto è organizzato per strade: Via degli Orti e delle Spezie, dei Formaggi, dei Salumi, dell’Olio e Conservati, del Grano, della Carne, dei Dolci e degli Spiriti, della Birra, cui si aggiunge un’area dove i Presidi internazionali di Slow Food portano i prodotti di terra e di mare da loro tutelati e riproposti al mondo intero: dalla bottarga del Banc d’Argueil (Mauritania) all’ormai quasi introvabile wild salmon norvegese, per non dire di strepitose aringhe. Di tutto.

I momenti più allegri, in tanto spintonare tra cento assaggi e mille volti, li si trova forse in quella zona chiamata «Aula DolceAmaro». E’ dedicata ai piccini che infatti arrivano vocianti, magari inquadrati in classi con berrettino giallo e zainetti talora non di marca. Qui viene riproposta una delle iniziative continue (di tutto l’anno), di Slow Food, dedicata alle scuole d’Italia. Come ci spiega Valeria Cometti, piccole donne e piccoli uomini vengono posti di fronte al problema di farsi un menu e poi, sulla base di quello, di andare nell’aula vicina, trasformata in una sorta di mercato con banchi, a scegliere gli ingredienti del loro pasto. Dietro i banchi, dei venditori-maestri spiegano la differenza tra una mela e un’altra, i piccoli scelgono, e sono poi chiamati a descrivere e raccontare, da veri comunicatori del gusto, i perché delle loro scelte. Da esperienze di tal fatta diverse scuole d’Italia sono passate a farsi il loro orto, per averne tutto l’anno di cibo giusto e buono, e pulito, ovviamente.

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Guerra in linea (strategie Vodafone)

Posted by franco carlini su 27 ottobre, 2006

Bruno Perini, il manifesto
È la sfida più insidiosa e più ambiziosa degli ultimi anni alla «rendita» di Telecom Italia, al tanto odiato canone pagato da milioni di persone per la telefonia fissa. Una vera e propria «aggressione» al core business del colosso delle Tlc, che apre una fase nuova nella feroce competizione che si sta celebrando nella convergenza tra fisso e mobile.
Stiamo parlando del gruppo Vodafone Italia che proprio ieri, a poche ore dal cda che ha aperto l’era Rossi, ha lanciato la prima formula integrata che consente di avere sul cellulare anche il numero fisso eliminando così il costo del canone. L’operazione, è stata annunciata con grande enfasi dall’amministratore delegato della società Pietro Guindani e dal direttore generale Paolo Bertoluzzo, che per l’occasione hanno usato termini come «svolta epocale», «Rivoluzione», «Una nuova tappa nella strategia di Vodafone».
Un assalto in grande stile al colosso Telecom e alla sua posizione di rendita nel fisso? «Questo lo dice lei – commenta con il sorriso sulle labbra Pietro Guindani – io non posso dirlo in quei termini. Certo, la nostra è una sfida sul terreno più caro al nostro concorrente. E non sarà l’ultima. D’altronde non ci stancheremo mai di dire che mentre nel mobile il mercato è liberalizzato, nel fisso c’è una posizione dominante che va sciolta se davvero si crede nella concorrenza». Anche Telecom nel cda che si è tenuto mercoledì ha annunciato la convergenza fisso mobile. Dove sarebbe la novità di Vodafone? «Diciamo, senza timore di essere smentiti, che la nostra è la prima concreta integrazione tra fisso e mobile che dà benefici ai clienti contrariamente a quella annunciata dal nostro concorrente». «Siamo il primo operatore -aggiunge l’amministratore delegato di Vodafone- ad abbattere in Italia l’ultimo muro che separava il telefono di casa dal telefonino. Questa è concorrenza vera, dimostrazione di cosa intendiamo per innovazione semplice e utile». In sostanza, hanno spiegato i due manager, sarà possibile avere sul cellulare gli stessi vantaggi della telefonia mobile, mantenendo entrambi i numeri. Uno scenario, quello ipotizzato da Vodafone, che potrebbe essere doloroso per Telecom: se il prodotto del gruppo anglosassone si affermasse spingerebbe i nuovi clienti di Vodafone a lasciare in un solo colpo sia un numero fisso che uno mobile.
Perchè, secondo Vodafone, il prodotto di Telecom Italia, definito «Unico» non darebbe gli stessi vantaggi del nuovo prodotto? «Non vogliamo entrare nei dettagli delle proposte dei nostri concorrenti ma se lei ci chiede in che cosa si differenzia la nostra proposta da quella di Telecom Italia glielo dico subito: chi sceglie la formula di Telecom deve cambiare telefonino, dotarsi di un voip e mantenere il fisso. Con Vodafone Casa Numero Fisso, il telefonino rimane lo stesso, il numero anche e chi lo vuole può staccare la spina del fisso e tenersi un solo telefono».
Abolito il telefono fisso, il cellulare funzionerà dunque come unico strumento per ricevere le telefonate sul numero di casa che, una volta lasciato l’appartamento, saranno trasferite su quello del cellulare. Una volta fuori casa, l’utente potrà decidere se attivare il trasferimento di chiamata, ricevendo così le telefonate indirizzate verso casa, inserire la segreteria telefonica o non rispondere, ricevendo poi un sms con il quale Vodafone lo informa delle telefonate ricevute. In sostanza per chi chiama non cambierà nulla, continuando a pagare come una normale telefonata sul fisso. Chi riceve non sosterrà alcun costo se in casa mentre fuori casa, se accetta la chiamata, pagherà uno scatto alla risposta di 15 centesimi al minuto. Il contratto prevede inoltre 1.500 minuti gratis per chiamate verso numeri fissi ed un contributo mensile di 9,99 euro.
«Ci attendiamo una convocazione dell’authority per le comunicazioni quanto prima e lì esporremo la nostra esposizione nel dettaglio». Pietro Guindani, a margine della conferenza stampa per la presentazione della possibilità offerta da Vodafone di trasferire il numero fisso di casa sul telefonino, non si è sbilanciato a proposito delle cose che dirà all’antitrust in merito alla posizione di Telecom e all’ultimo miglio. A chi gli chiedeva se Vodafone potesse essere interessata ad un eventuale ingresso societario nella rete fissa, Guindani ha detto: «Non so rispondere a questa domanda». L’amministratore delegato dell’operatore telefonico, commentando le decisione di ieri del Cda di Telecom ha detto che «la svolta strategica del nostro competitore desta alcune preoccupazioni, ma abbiamo fiducia nell’Autorità per le comunicazioni e nell’Antitrust». Guindani ha aggiunto, riferito alla rete fissa, di aspettarsi che «qualunque infrastruttura di natura monopolistica sia aperta a tutti gli operatori mobili e fissi» anche per quanto riguarda «la Next Generation Network che altro non è che l’insieme delle centrali che forniranno dati in modo sempre più veloce». Guindani ha inoltre ribadito che la sua preoccupazione riguardano due temi in particolare: da un lato «la modalità di scorporo della rete fissa che deve comprendere l’ultimo miglio e le infrastrutture di rete incluso la Next Generation Network altrimenti sarebbero svantaggiati gli operatori fissi alternativi» a Telecom. Dall’altro lato occorre «scorporare la divisione commerciale fissa e mobile di Telecom» per evitare che l’ex monopolista utilizzi «la posizione dominante nel fisso per rafforzarsi nel mobile». Sulle modalità con cui realizzarla Guindani ha aggiunto che il fine è la separazione e che al riguardo anche la creazione di due divisioni separate potrebbe essere sufficiente. «Telecom Italia – ha detto ancora l’amministratore delegato della Vodafone – ha il 78% del mercato. E’ per questo motivo che chiediamo all’Authority di fare la sua parte. Si è mai chiesto come mai nessuno lamenta la convergenza tra fisso e mobile di Wind? Semplice: Wind non ha una posizione dominante, mentre Telecom Italia sì».
Paolo Bertoluzzo, direttore generale del gruppo, torna a parlare della «rivoluzione» Vodafone: «Un’aggressione al core business di Telecom? Non userei questa immagine. Ci limitiamo a dire che la nostra è una risposta a un bisogno di massa, non una roba da tecnofan. E siamo convinti di aver risposto con un servizio semplice ed estremamente convincente».
E i clienti che utilizzano Internet? Perchè un cliente di Alice dovrebbe lasciare quel servizio fornito da Telecom per passare a Vodafone Casa Internet? Paolo Bertoluzzo ti mostra una delle offerte di Vodafone, Time Unlimited che prevede con 30 euro al mese la connesione internet per 10 ore al giorno a velocità che vanno da 1,8 a 3,6 megabit. «Il grande vantaggio – spiega il direttore generale – è che con una connecting card ci si può connettere a Internet ovunque, anche all’estero». I vertici di Vodafone sono molto guardinghi a proposito della reazione di Telecom e annunciano «vigilanza». Come risponderà il gruppo presieduto da Guido Rossi all’offensiva di Vodafone? Molto dipende da come andranno le trattative aperte dal presidente con l’antitrust. Per Telecom è decisivo sbloccare la questione della convergenza: il gruppo aveva già proposto al mercato un prodotto tecnologicamente sofisticato che prevedeva la convergenza tra fisso e mobile con un unico apparecchio, ma l’Agcom ha annacquato il progetto. Se i vertici di Telecom riusciranno in breve tempo ad alleggerite la posizione dominante del gruppo grazie allo scorporo di una società che gestisca l’ultimo miglio, il gruppo potrà mettere in campo tutta la sua tecnologia per replicare a Vodafone. La guerra comunque è aperta e sarà all’ultimo sangue, non all’ultimo miglio.

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editoriale / Delusione Guido Rossi

Posted by franco carlini su 26 ottobre, 2006

Franco Carlini
Il giorno 19 della settimana scorsa il presidente di Telecom Italia è stato sentito alla Commissione Giustizia del Senato a proposito delle intercettazioni telefoniche di mister Tavaroli and Co., realizzate a partire dai computer della società. Rossi ha fatto sua la linea di Tronchetti Provera, ovvero che Telecom Italia è «parte danneggiata» perché dirigenti infedeli hanno abusato dei sistemi. Tuttavia c’è qualcosa che non funziona in questa versione perché dei dipendenti Telecom sono state schedati. «A questi dipendenti non ritiene di dover chiedere scusa?» gli ha chiesto il senatore Massimo Brutti. E’ chiaro infatti, che, almeno in questo caso, i nomi delle persone da scrutare illegalmente devono essere stati forniti dall’ufficio personale di Telecom, con una debita richiesta di accertamenti. Difficile pensare che il tizio facesse tutto da solo. Risposta del professor Rossi: «sono solo 150 su 85 mila dipendenti». In America c’è stato un caso analogo, quello dell’americana Hp che intercettava i giornalisti per capire da quali fonti interne ricavassero le notizie. Ebbene il Chief executive Mark Hurd ha ammesso di sapere, se non i dettagli, almeno l’oggetto della ricerca; ha riconosciuto pubblicamente lo sbaglio; infine si è impegnato a comunicare a tutti i soggetti «bersaglio» delle investigazioni illegali, i metodi e il dettaglio di tutte le informazioni su di loro raccolte. Invece Rossi, l’uomo della trasparenza e del capitalismo moderno, ha opposto una risposta negativa alla richiesta del senatore Felice Casson che venisse messa a disposizione del senato l’indagine conoscitiva sui sistemi di sicurezza da Telecom affidata agli analisti di Kpmg.
Intanto uno dei bersagli di Hp, la giornalista Pui-Wing Tam del Wall Street Journal, per nulla tranquillizzata, si è già data da fare diligentemente e ha raccontato in pubblico, in un lungo articolo di 2800 parole, come Hp, fosse andata rovistando financo nella spazzatura di casa sua, oltre che nei telefoni e nella posta elettronica. Sia lecito nutrire qualche ammirazione per il giornalismo americano e per quelli che in Italia fanno cose analoghe, come i colleghi Bonini e D’Avanzo di Repubblica, anche se per questo, sulla televisione di Telecom Italia, vengono sbeffeggiati, loro e il pm milanese Spataro. E’ avvenuto nella trasmissione Otto e Mezzo, gestita da un tizio che spavaldamente rivendicò di aver lavorato per la Cia.

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Intelligenza collettiva, al Mit

Posted by franco carlini su 26 ottobre, 2006

Il più prestigioso politecnico del mondo allarga la sua progettualità aperta stile wiki
Le idee sono sempre il frutto di relazioni tra diverse menti, del passato e dell’oggi. E la scienza rifiuta i modelli di conoscenza mercificata e privatizzata

Alessandro Delfanti
Chissà se al Massachusetts Institute of Technology di Boston stavano pensando al loro vecchio programmatore Richard Stallman, fondatore del movimento Open Source, quando hanno trasformato il Center for Coordination Science nel nuovissimo Center for Collective Intelligence (http://cci.mit.edu), che si propone di capire «come le persone e i computer possono essere connessi in modo da agire – collettivamente – in modo più intelligente di quanto qualunque individuo, gruppo o computer abbia mai fatto prima». Per dimostrare che l’affare è serio basta elencare le strutture coinvolte: il Dipartimento di management, il Dipartimento di computer science e intelligenza artificiale, quello di scienze cognitive, il nuovo McGovern Institute for Brain Research e infine il celebre Medialab.
Il Center for Collective Intelligence studierà e applicherà le interazioni in rete tra individui, che creano conoscenza con l’aiuto di strumenti tecnologici come database aperti, wiki, forum on line. Google, Wikipedia, Linux ed e-Bay sono esempi che mostrano che qualcosa di importante sta già succedendo. Ma questi esempi sono solo l’inizio della storia.
Al Mit è nato dunque Collaboratorium, forum on line sul cambiamento climatico che userà «una combinazione innovativa di interazioni mediate da internet, archivi di idee generate collettivamente, simulazioni e rappresentazioni che aiuteranno gruppi di ricercatori grandi, eterogenei e dispersi geograficamente a esplorare sistematicamente i problemi e risolverli. Gli utenti potranno condividere le loro idee e analizzare le diverse opzioni usando gli strumenti di simulazione, e poi prendere decisioni collettive». Un altro progetto si chiama «We are Smarter than Me» (www.wearesmarter.com) ed che significa «Noi siamo più intelligenti di Me». E’ un libro scritto collettivamente tramite un wiki, cioè un testo on line che ogni utente registrato può modificare liberamente. Sono già trecento i partecipanti che lavorano alla sua stesura, direttamente sulle pagine on line che nel 2007 diventeranno un libro di vera carta che applica la teoria dell’intelligenza collettiva all’economia aziendale.
In fondo non sono grandi innovazioni: il modello Wikipedia è già stato applicato con successo ai libri da diversi gruppi. In Italia, per esempio, sono stati scritti collettivamente in forma wiki i libri del Gruppo Laser (www.e-laser.org) e quelli «comunità di scriventi» Ippolita (www.ippolita.net). Secondo il direttore del Center for Collective Intelligence Thomas Malone (professore di management e autore di The future of work) «nei prossimi anni molte persone faranno un sacco di ‘esperimenti naturali’ con l’intelligenza collettiva – con o senza di noi». La novità sta quindi nel tentativo del Mit di applicare questo modello alla scienza, coagulando forze intellettuali e risorse economiche invidiabili attorno a un progetto che avrà il difficile compito di sviluppare teorie che possano «aiutare a comprendere le nuove forme di organizzazione che prima non sarebbero state possibili ma che domani potrebbero diventare molto più efficienti, flessibili e innovative delle forme di organizzazione tradizionali». Per i ricercatori, strettamente legati alla paternità del loro lavoro, certificata dalla firma sotto un articolo scientifico, potrebbe trattarsi di un’importante cambiamento: a chi attribuire il merito di una ricerca sviluppata in forma aperta da centinaia di persone sparse per il mondo e per la rete? Il mutamento di nome serve anche a coinvolgerli: per Malone «intelligenza collettiva è una forma molto più eccitante per descrivere quello che vogliamo fare. Questo nome enfatizza le eccitanti possibilità che abbiamo davanti e ha catturato l’entusiasmo di molte persone del Mit con le quali non avevamo mai lavorato prima».
Del resto il Mit ha un approccio molto aperto rispetto alla circolazione del sapere. L’esempio più noto è il programma OpenCourseWare (http://ocw.mit.edu)che consiste nella messa in rete dei suoi ricchi materiali didattici. I corsi sono disponibili gratuitamente, per permettere anche a chi non può pagare le altissime rette di studiare dispense e lezioni. L’obiettivo è di arrivare a rendere disponibile il materiale di 1800 corsi entro il 2008. È un metodo seguito anche da altre università: pochi giorni fa la Uc Berkeley ha siglato un accordo con Google per mettere a disposizione di tutti, gratuitamente, le registrazioni video delle lezioni (http://video.google.com/ucberkeley). Per ora sono disponibili soltanto 250 ore di lezioni e seminari che vanno dalla biologia sintetica al giornalismo, all’anatomia umana, ma il potenziale di Berkeley, uno degli atenei più grandi e influenti del mondo, è immenso. Naturalmente i video delle lezioni potranno essere condivisi liberamente e passati da un blog all’altro, da un link al successivo. «Un perfetto esempio di come la tecnologia possa espandere il concetto di università veramente pubblica», ha dichiarato Dan Mogulof, project manager del progetto di «coursecasting».

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giornalismi / Marketing, allusioni e denunce

Posted by franco carlini su 26 ottobre, 2006

Autoelogi: Gianni Di Donno, professore di Storia contemporanea all’Università di Lecce, sul Corriere della Sera (domenica 22 ottobre, pag. 39) incita Giampaolo Pansa a non «fermarsi in mezzo al guado» nelle sue denunce dei misfatti della Resistenza e a indagare sull’apparato paramilitare del Pci. Di Donno è autore del libro «La Gladio rossa del Pci» ed è stato consulente della commissione Mitrokhin. Da vero cultore della materia invita dunque Pansa a documentarsi, magari leggendo un saggio dello stesso Di Donno, di prossima uscita su Nuova storia contemporanea. Si precisa che il fascicolo è quello di novembre-dicembre, di modo che i lettori non manchino di acquistarlo.
Acidità: Per parte sua lo stesso Pansa, mentre lamenta della campagna contro di lui dell’estrema sinistra e le poche solidarietà pubbliche ricevute dal mondo politico, utilizza a sua volta il penoso metodo dei giudizi senza motivazioni. Così se la prende con Corradino Mineo di recente nominato direttore di Rai News 24: «Ricordate come lavorava da New York per il Tg3? Non fatemi dire altro». Pansa non dice ma solo allude. L’unica cosa che il lettore capisce è che non stima Mineo (così come, da tempo, ce l’ha con Gad Lerner e tanti altri): un cartellino rosso preventivo e via.
Vendette: il giornalista Pino Nicotri ha ricevuto una richiesta di risarcimento da 520 mila euro per danni morali e d’immagine da Paolo Panerai, amministratore delegato di Class Editori. Nicotri, sindacalista del gruppo «Senza Bavaglio», aveva chiesto ripetutamente a Panerai di rispettare la sentenza del tribunale che dichiarava nullo il licenziamento da Italia Oggi di Ugo Degl’Innocenti. Il reintegro infine è avvenuto ma con esso anche la vendicativa causa civile. Oggi senza Bavaglio insiste e domanda polemicamente: «è giusto che un editore come Class, che non rispetta le regole, riceva i soldi pubblici stanziati per le provvidenze sull’editoria?»

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giornalismi / Marketing, allusioni e denunce

Posted by franco carlini su 26 ottobre, 2006

Autoelogi: Gianni Di Donno, professore di Storia contemporanea all’Università di Lecce, sul Corriere della Sera (domenica 22 ottobre, pag. 39) incita Giampaolo Pansa a non «fermarsi in mezzo al guado» nelle sue denunce dei misfatti della Resistenza e a indagare sull’apparato paramilitare del Pci. Di Donno è autore del libro «La Gladio rossa del Pci» ed è stato consulente della commissione Mitrokhin. Da vero cultore della materia invita dunque Pansa a documentarsi, magari leggendo un saggio dello stesso Di Donno, di prossima uscita su Nuova storia contemporanea. Si precisa che il fascicolo è quello di novembre-dicembre, di modo che i lettori non manchino di acquistarlo.
Acidità: Per parte sua lo stesso Pansa, mentre lamenta della campagna contro di lui dell’estrema sinistra e le poche solidarietà pubbliche ricevute dal mondo politico, utilizza a sua volta il penoso metodo dei giudizi senza motivazioni. Così se la prende con Corradino Mineo di recente nominato direttore di Rai News 24: «Ricordate come lavorava da New York per il Tg3? Non fatemi dire altro». Pansa non dice ma solo allude. L’unica cosa che il lettore capisce è che non stima Mineo (così come, da tempo, ce l’ha con Gad Lerner e tanti altri): un cartellino rosso preventivo e via.
Vendette: il giornalista Pino Nicotri ha ricevuto una richiesta di risarcimento da 520 mila euro per danni morali e d’immagine da Paolo Panerai, amministratore delegato di Class Editori. Nicotri, sindacalista del gruppo «Senza Bavaglio», aveva chiesto ripetutamente a Panerai di rispettare la sentenza del tribunale che dichiarava nullo il licenziamento da Italia Oggi di Ugo Degl’Innocenti. Il reintegro infine è avvenuto ma con esso anche la vendicativa causa civile. Oggi senza Bavaglio insiste e domanda polemicamente: «è giusto che un editore come Class, che non rispetta le regole, riceva i soldi pubblici stanziati per le provvidenze sull’editoria?»

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media center / La Germania scopre il canone

Posted by franco carlini su 26 ottobre, 2006

Matteo Alviti
La moratoria è terminata. Dal primo gennaio del 2007, in Germania, chiunque compri o possegga un computer con accesso internet o un telefonino con radio o tv dovrà pagare 5,52 euro di canone. Lo hanno deciso venerdì i governatori dei sedici Länder tedeschi riuniti a Bad Pyrmont, in Bassa Sassonia. La tassa su computer e telefoni cellulari era già parte integrante della normativa sul finanziamento della radio e televisione pubblica, ma a causa delle proteste che aveva sollevato era stata sospesa con una moratoria ad hoc. Da venerdì la scadenza per la moratoria è stata fissata al 31 dicembre del 2006. Ad oggi il sistema tedesco prevede che i possessori di radio o televisioni paghino una retta mensile per finanziare le emittenti pubbliche radiofoniche, i due canali televisivi nazionali e quelli regionali. Non tutti, però, erano d’accordo sull’introduzione della nuova gabella. Soprattutto l’entità del «canone per pc» era in discussione. Tra l’equiparazione ai 17,03 euro al mese per le televisioni e chi invece non ne voleva fare niente, i 5,52 euro dell’intesa danno l’idea di un accordo al ribasso. Dal pagamento saranno esentati tutti i privati che già pagano il canone come nucleo famigliare o abitativo. Proteste veementi sono arrivate dal mondo dell’economia. Ad essere toccate dal nuovo canone saranno le imprese, piccole in particolar modo, e i liberi professionisti. La legge prevede, infatti, che ogni computer con allaccio internet venga dichiarato come apparecchio radiofonico. I governatori hanno comunque espresso l’auspicio, entro un anno, di giungere a una revisione completa del sistema di finanziamento delle emittenze pubbliche. Non piace, tuttavia, nemmeno l’idea di trasformare il canone in tassa: far passare i pagamenti per gli uffici finanziari del governo avvicinerebbe troppo la politica al servizio pubblico, compromettendone l’imparzialità.

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pubblicità / La corsa globale dei brand in rete

Posted by franco carlini su 26 ottobre, 2006

Il sogno delle aziende? Essere un brand internazionalmente riconosciuto perché questo si traduce in reputazione presso i consumatori. Ma anche in questo campo le cose vanno cambiando da quando c’è l’internet: mondo reale e mondo di rete in larga misura coincidono, ma sono anche differenti.
Lo confermano due ricerche che oggi vengono presentate a Milano all’interno di un convegno dell’Upa, associazione degli inserzionisti pubblicitari italiani (inutile consultare il sito http://www.upa.it, perché la gran parte dei materiali sono riservati agli iscritti, a conferma di quanto le imprese italiana siano arretrate nella considerazione dell’internet. Oltre a tutto quel sito è sciaguratamente realizzato con tecnologia Flash, che ne riduce l’usabilità e l’accessibilità, anche se lo fa apparire molto figo).
Gianni Catalfamo del gruppo internazionale Pleon ha messo a confronto due classifiche. La prima, tradizionale, è quella prodotta ogni anno da Interbrand (http://www.brandchannel.com/start1.asp?fa_id=298) chiedendo ai consumatori quali marchi hanno avuto il maggior impatto. In questa classifica al primo posto c’è Google, seguito da Apple e Skype, il popolare servizio di telefonia «alla Internet» (VoIP). Tra i primi venti compaiono sia marchi classici e assai globali come Ikea, CocaCola, Nike e Adidas, ma anche emergenti significativi come la catena spagnola di abbigliamento Zara.
La seconda classifica invece è stata ricavata dalla stessa Pleon analizzando «cinque anni di conversazioni in rete», ovvero attivando dei software come quelli dei motori di ricerca che scandagliano siti, gruppi di discussione e blog. Ci sono larghe coincidenze, ma anche delle diversità.
Unica star permanente – al secondo posto in entrambi i casi – è Apple, ma al primo questa volta c’è Yahoo! e non Google, pur così famoso. Secondo Catalfamo «i nuovi media si muovono in modo indipendente da quelli tradizionali, talvolta in accordo e talvolta no.
Progettare la propria strategia di marca richiede perciò una maggior consapevolezza delle dinamiche e delle peculiarità nel funzionamento dei Consumer Generated Media».

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