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articoli e appunti da franco carlini

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Archive for 2 novembre 2006

Vodafone telefono casa

Posted by franco carlini su 2 novembre, 2006

Come se non avesse abbastanza problemi di immagine e di credibilità, Telecom Italia si è infilata in altro brutta grana che la sta portando diritto al tribunale civile di Milano e davanti all’Autorita per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom).

I fatti: da dieci giorni Totti e Gattuso si aggirano per gli spot televisivi suggerendo a una bella ragazza, e a tutti i clienti di linea fissa di Telecom Italia, non solo di staccare la spina della linea di casa, ma anche di portarsi al seguito, sul proprio cellulare, il vecchio numero telefonico. Il servizio si chiama Vodafone Casa, Opzione Numero Fisso. In pratica tutte le telefonate in arrivo sul fisso finiranno sul telefono mobile indicato dall’abbonato il quale da casa sua (e nella cella che lo comprende) riceve le chiamate al vecchio numero. Per telefonare in uscita il cliente Vodafone spende 10 euro di canone mensile, ma da quel telefonino e in quella cella, può fare 1500 minuti di telefonate pagando solo lo scatto alla risposta di 15 centesimi. Il nuovo servizio, che l’amministratore delegato di Vodafone Italia Pietro Guidani, la settimana scorsa ha presentato come una svolta «che passerà agli annali» (vedi i dettagli come descritti da Bruno Perini: https://chipsandsalsa.wordpress.com/2006/10/27/guerra-in-linea-strategie-vodafone) è certamente micidiale perché raccoglie ed esalta un costume ormai assai diffuso tra gli italiani: come spiega Valerio Zingarelli, uno dei più grandi esperti di telefonia cellulare, già nella squadra che fece il successo di Omnitel, il 75 per cento delle telefonate cellulari «parte in house», da un appartamento o da un ufficio. L’offerta mira dunque al mercato di massa: 20 milioni di utenze Telecom che, utilizzando il cellulare, non hanno più bisogno del telefono fisso se non per fatti storici, dato che amici e conoscenti hanno quello come punto di riferimento e di contatto. Non interesserà invece i clienti che la linea fissa se la tengono per avere un collegamento Internet veloce: le proposte Internet di Vodafone infatti sono ancora troppo costose e la velocità sovente risulta assai bassa. Qui Vodafone ha ancora della strada da fare e il recente accordo con Fastweb è forse solo un primo passo verso una banda davvero larga.

Dunque la campagna di Vodafone è in corso e le prenotazioni al nuovo servizio già arrivano, ma all’improvviso Telecom Italia, ha deciso di negare la possibilità di trasferire i vecchi numeri fissi ai clienti di Vodafone. Eppure il Codice delle Comunicazioni Elettroniche obbliga agli operatori, e a maggior ragione a quello dominante, a garantire l’interoperabilità delle reti. E chiede alla stessa Telecom di attivare lo sganciamento e la nuova interconnessione dei suoi clienti che vogliano passare a un altro fornitore come Tiscali, Fastweb, Tele2 e, perché no, Vodafone, la quale dal 1999 ha una licenza di rete fissa, anche se fino ad ora non aveva approfittato di questa possibilità.

Probabilmente l’ex monopolista proverà a sostenere che è sì obbligata a passare i numeri e i clienti ai concorrenti, ma solo da fisso a fisso, mentre non rientrerebbe nei suoi obblighi quello di deviarli sulla rete cellulare. La tesi, specialmente in tempi di convergenze tecnologiche e di molteplicità di reti con e senza fili, su fibra e su rame, appare decisamente retrograda e poco sostenibile, ma intanto, ancora una volta, una competizione sui servizi, che tutti dicono di auspicare, finirà in sentenze e appelli.

Con la sua proposta Vodafone in sostanza ha inventato una forma originale di convergenza fisso-mobile, dove è il primo ad agganciarsi al secondo, anziché essere il cellulare che da casa viene servito da una rete fissa; tale era la proposta «Unico» di Telecom Italia, che l’Agcom nella primavera scorsa bloccò perché non replicabile dai concorrenti. Agli abbonati Telecom veniva offerto un centralino di casa, collegato al doppino telefonico di modo che all’interno dell’abitazione più telefoni cellulari sarebbero passati attraverso di lui, senza fili, con collegamento locale WiFi, per telefonare verso l’esterno. Unico appunto il piano di abbonamento e la bolletta Telecom più Tim. Il centralino o hub casalingo avrebbe fatto anche da modem per i collegamenti veloci all’internet.

Il «boicottaggio» praticato dell’ex monopolista è anche autolesionista perché in un momento in cui tutti la criticano, ripropone un atteggiamento «prepotente». Si noti che Guido Rossi è salito alla presidenza di Telecom Italia avendo tra i suoi obbiettivi più evidenti proprio quello di migliorare i rapporti con l’Agcom e arrivare a soluzioni concordate. ma sta succedendo proprio il contrario. Oppure potrebbe essere vero esattamente il contrario: Telecom Italia potrebbe aver scelto la strada del conflitto per avere uno strumento di pressione e di scambio con l’Autorità per le Comunicazioni. Rallentare la pericolosa irruzione di Vodafone nel suo terreno protetto e contemporaneamente utilizzare questa diatriba per ottenere un atteggiamento favorevole dall’Autorità alle sue proposte di convergenza fisso mobile con Tim.

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Vodafone cita Telecom Italia

Posted by franco carlini su 2 novembre, 2006

Vodafone Italia cita in giudizio Telecom per concorrenza sleale.
Telecom sospende la negoziazione sull’interconnessione con Vodafone per impedire la partenza della nuova offerta Vodafone casa numero fisso

Milano, 2 novembre 2006. Telecom ha sospeso la negoziazione con Vodafone Italia a riguardo dell’apertura dell’interconnessione tra la propria rete e quella di Vodafone Italia, come invece previsto dagli obblighi di legge sanciti dal Codice delle Comunicazioni Elettroniche che richiede agli operatori di garantire l’interoperabilita’ tra tutte le reti.

Vodafone Italia ha dunque oggi citato in giudizio Telecom presso il Tribunale Civile di Milano per concorrenza sleale. Con l’azione giudiziaria, Vodafone Italia chiede di:

• sancire l’illeggittimita’ del rifiuto da parte di Telecom a aprire la propria rete a Vodafone Italia
• intimare a Telecom la conclusione del contratto di interconnessione come previsto dalla legge
• risarcire i danni derivanti dalla condotta anticompetitiva dell’operatore dominante.

Vodafone Italia e’ titolare della licenza di rete fissa dal 1999 ed e’ dunque autorizzata a offrire servizi di telefonia fissa sulla propria rete, in piena aderenza al principio di neutralita’ tecnologica secondo la quale i servizi di telefonia fissa possono essere offerti indipendentemente dalla tecnologia di accesso (ovvero sia tramite il doppino di rame oppure una qualsiasi tecnologia radio, quali Dect, Wi-Fi, Gsm/UMTS, Wimax) entro il limite di ciascun distretto geografico.

Il comportamento di Telecom impedisce l’interoperabilità delle reti di telecomunicazioni e pregiudica l’esercizio da parte di Vodafone dei diritti ad essa attribuiti con licenza dello Stato. Cio’ e’ piu’ grave in considerazione del fatto che con il 78% del mercato Telecom e’ tuttora l’operatore dominante nel mercato dei servizi di telefonia vocale e che tale condotta ostacola l’offerta di servizi concorrenti.

Servizi analoghi a Vodafone Casa Numero Fisso sono gia’ offerti in altri paesi dal Gruppo Vodafone e da altri operatori. In particolare tali servizi sono gia’ sul mercato in Germania ed in Portogallo e sono in fase di lancio in Ungheria.

Vodafone Italia ha gia’ richiesto un intervento di urgenza all’Autorita’ per le Garanzie nelle Comunicazioni al fine di poter ottenere l”interconnessione con la rete di Telecom. L’ulteriore azione in sede civile ha l’obiettivo di accertare il profilo anticoncorrenziale del comportamento di Telecom Italia, nonche’ le conseguenze sul piano del risarcimento del danno.

Vodafone Italia aveva avviato nel mese di luglio 2006 un’azione giudiziaria contro Telecom per abuso di posizione dominante, con cui richiedeva l’inibizione delle condotte abusive messe in atto da Telecom per rafforzare la sua presenza nel mercato delle telecomunicazioni mobili, con effetti escludenti per gli operatori concorrenti.

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editoriale / Da molti a molti

Posted by franco carlini su 2 novembre, 2006

Franco Carlini

Queste due pagine sono state costruite sulla base dei materiali di scenario di cui ieri si è discusso in una riunione informale nella redazione del manifesto. L’incontro non era direttamente finalizzato a progettare il nuovo giornale perché questo compito sta al consiglio di amministrazione, alla direzione, all’intero collettivo e all’assemblea di azionisti e lettori. Si trattava semplicemente di riordinare le idee, anche facendo patrimonio comune del molto che su questi temi abbiamo scritto negli ultimi mesi, un po’ perché pressati dal nostro problema, ma anche perché tutti i quotidiani sono entrati da tempo in sofferenza e la possibile scomparsa di questi soggetti della sfera pubblica sarebbe comunque una riduzione della democrazia delle idee.

Le cose dette finora sono davvero molte, e i convegni abbondanti, anche se è pur vero che spesso i convegni si fanno quando non si sa agire. I materiali più freschi pubblicati sul manifesto sono elencati nel blog http://www.chipsandsalsa.wordpress.com. Basta collegarsi e andare alla voce “Giornalismi”. Non sono assolutamente completi ma verranno arricchiti con altre fonti e bibliografie, al di là del manifesto,. In questo caso i «redattori» online svolgono umilmente una funzione preziosa, quella di leggere per conto terzi e di selezionare e ordinare le fonti, di modo che un militante dei media alternativi, come uno studente per la sua tesi, o chiunque altro, possa risparmiare un po’ di tempo e per l’intanto avere una griglia di materiali di partenza ragionati.

L’ipotesi di fondo è che l’internet abbia già assunto un peso paragonabile a quello che ebbe la macchina a stampa, ovvero di una fenomenale e democratica rottura. Gutenberg rese possibile un esponenziale aumento della riproducibilità dei testi, ma c’era pur sempre bisogno di macchine costose, di un’industria editoriale, di capitali. Con le tecnologie digitali di rete non solo aumenta a dismisura la disponibilità delle conoscenze, ma divampa la loro creazione. Ogni cosa scritta, disegnata, fotografata o filmata nasce digitale e può immediatamente schizzare fuori dalle memorie magnetiche, verso il mondo. Tutto ciò è micidiale e felicemente «distruttivo», nel senso che sposta linee di confine e poteri. Non per caso quelli esistenti, politici ed economici, sono alacremente all’opera per arginare tale sovversione che finalmente trasforma il broadcasting in peer to peer, da persone a persone.

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«La Rete sia con te», disse lo Jedi

Posted by franco carlini su 2 novembre, 2006

Una tecnologia abilitante sfonda le barriere. Informazioni e conoscenze sono in rete appena create, in spirito di condivisione e clamorosamente fuori mercato. E’ questa la minaccia che il web e le comunicazioni digitali portano a un’industria seduta su se stessa, abituata ad avere il monopolio dell’informazione quotidiana, ma della quale molti lettori hanno cominciato a fare a meno perché si sono fatti redattori ed editori essi stessi

Cosa insegna l’internet ai giornali di carta e come li sta comunque cambiando? Molta della discussione in proposito si è svolta finora solo in termini di economia e di modelli di business, cioè dal punto di vista dell’impresa editoriale: copie calanti, pubblicità che migra verso la tv e ora verso l’online, alto costo delle risorse umane giornalistiche e, su tutto, la rete che produce e diffonde informazione abbondante e quasi sempre gratuita, sì da soddisfare anche i più esagerati bulimici di notizie.

Si provi tuttavia a rovesciare lo sguardo, mettendosi invece dalla parte dei lettori: dalla metà degli anni ’90, quando il web esplose come fenomeno di massa, è successo che almeno un miliardo di persone (un abitante della Terra su sei) ha potuto acquistare o avere accesso a dei personal computer di basso costo collegati all’internet e usarli per stare in relazione con amici lontani e ottenere informazioni su ogni argomento che interessi la sua vita e il suo lavoro. Ma soprattutto la disponibilità di una tale tecnologia abilitante (nel senso che «mette in grado di») ha fatto cadere le barriere tra chi produce notizie e le diffonde e chi ne fruisce solo leggendole. I miliardi di pagine che costituiscono il word wide web, ragnatela grande come il mondo, e che i motori di ricerca scandagliano e rimettono a disposizione di tutti noi, solo in minima percentuale sono state prodotte da imprese editoriali for profit; sono invece il frutto di una presa di parola di massa di singoli e di organizzazioni che hanno trovato in questo strumento una possibilità fino a ieri negata. Gli uomini del marketing hanno da tempo inventato una nuova locuzione per tale fenomeno: user generated contents (contenuti generati dagli utenti). Dalla politica alta alla scienza, dal porno ai manuali di cucina, c’è letteralmente di tutto e per tutti, fino al punto di creare un senso di stordimento. C’è abbondanza dove c’era scarsità, c’è libertà di espressione dove prima c’erano vincoli materiali e sociali. Non è un mondo virtuale, separato da quello reale ma è la forza che può rivitalizzare società ripiegate e media stanchi. «La Forza è la vita e la vita è la Forza» dice Obi-Wan Kenobi il saggio Jedi di Guerre Stellari e la metafora ben si applica a questo network la cui crescita in quantità e qualità nessuno dei suoi ideatori aveva previsto.

Un vero reazionario, ma intelligente, il boss dei media Rupert Murdoch, più di un anno fa, in una riunione degli editori americani di quotidiani, rinobbe di non aver capito niente dell’Internet e del resto anche il grande Bill Gates, nei primi anni ’90, aveva scrollato le spalle di fronte a chi gli parlava dell’internet: lì non c’è business, disse, clamorosamente sbagliandosi, sì che ora lui, l’uomo più ricco del mondo, si trova a inseguire i giovani che stanno plasmando la rete.

Se Murdoch e Gates, se la Ibm e Hollywood hanno come ragione sociale il produrre profitti, milioni di persone vanno sul web invece per altri scopi, dichiaratamente non di mercato, non per denaro. La condizione materiale per cui questo avviene è appunto l’abbondanza: la proprietà e la moneta vennero inventate dagli umani per gestire in maniera efficiente delle risorse scarse, così ci spiega l’economia classica. Ma quando il costo di un Pc è pari a 25 cene in pizzeria e miliardi di tali Pc accesi in tutto il mondo contengono nei loro dischi dei terabyte di informazioni e le mettono a disposizione dei loro confratelli, le regole del gioco cambiano totalmente. La battaglia strenua che le major della musica, del cinema e dell’editoria conducono nei tribunali contro la «pirateria» corrisponde al tentativo, si spera senza successo, di ricreare artificiosamente una scarsità, e perciò un valore monetario e dei profitti, là dove la rete ha creato un fantastico eccesso mai vista prima.

La cosa più drammatica per gli editori è che queste masse sparpagliate hanno cominciato a fare a meno di loro: dei loro quotidiani pieni di teatrini politici e di polemiche inventate, e dei loro programmi televisivi. Ludovico, 12 anni, l’altro giorno ricevette un Sms da una coetanea; era un appuntamento in chat da lì a mezz’ora e dunque: «dai mamma, corriamo a casa». Non per vedere dei telefilm, ma per chiacchierare spensieratamente felici come si può esserlo a quell’età (e se possibile anche più avanti negli anni). E non si accontentano di farne a meno come fruitori, addirittura invadono il loro campo, condividendo con il mondo gli appunti universitari, le foto di un evento, emettendo notizie dalla Tanzania come dalla Finlandia.

«Inaffidabili» che non siete altro, contestano alcuni giornalisti sventolando il tesserino dell’Ordine, mentre Murdoch, più lungimirante di loro, ammette realisticamente che «i nostri lettori sanno più cose di noi» e mentre i più furbi tra i loro colleghi e gli uffici di Pr delle aziende girano freneticamente per i blog per cogliere in anticipo tendenze e sentimenti del mondo.

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statistiche / Sommersi dagli exabytes

Posted by franco carlini su 2 novembre, 2006

Secondo una ricerca dell’università di Berkeley, che purtroppo risale al 2002, in quell’anno vennero prodotti 5 nuovo exabytes di informazione, depositata in forma digitale. Un exa è un miliardo di miliardi. Gli stessi ricercatori stimavano che ogni tre anni raddoppiasse, e dunque dovremmo essere a 10 exa (il link relativo lo si trova a https://chipsandsalsa.wordpress.com/giornalismi/). Ovviamente 10 exa è una quantità sconvolgente: è come se ognuno dei 6,5 abitanti della Terra producesse ogni anno un camioncino pieno di libri. Di questa nuova informazione il web superficiale», quello accessibile, rappresenta però soltanto una parte, e nemmeno la più grande: pari a 167 terabyte (un tera è mille miliardi), meno di un decimillesimo. La posta elettronica, un diluvio, è circa tre volte il web. La gran parte dei nostri fantastici exa è data da film, musiche, fotografie, registrazioni tv, eccetera. Se si tenesse conto anche delle conversazioni telefoniche, che sono pur sempre informazioni, ma per fortuna non tutte intercettate e registrate i totali schizzerebbero ancora più in alto. La carta è una cenerentola che di più non si può, e buon per gli alberi. La cosa significativa in questo gran fiume di bit e bytes (un byte è otto bit ed equivale grosso modo a un carattere a stampa), è però un’altra: che essa in larghissima misura nasce già digitale, perché viene prodotta sui computer o altri apparati elettronici di registrazione. E ciò avviene perché le tecnologie della microelettronica hanno messo alla portata di miliardi di persone apparati di produzione che un tempo erano molto costosi e riservati solo ai professionisti: dalle camere digitali ai Pc, dai cellulari ai registratori. Dopo di che è persino ovvio che tanto ben di bit «voglia essere libero» e tenda a propagarsi altrove, andando in rete, viaggiando come Mms, e via saltando.

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buone letture / Le cornici che fanno vincere

Posted by franco carlini su 2 novembre, 2006

George Lakoff è professore a Berkeley ed è un linguista.  Il suo ultimo libro si intitola Don’t think of an elephant. Know your values and frame the debate («Non pensare a un elefante! Conosci i tuoi valori e imposta il dibattito») e per la rete è letteralmente dilagato anche in rapporto al ruolo dei media nelle elezioni politiche.  La sua tesi ormai circola anche in Italia, ma non sembrano tenerne conto i politici di centrosinistra. Dice Lakoff che nello scontro politico essenziale è saper costruire e imporre la propria cornice di riferimento, il frame, all’interno del quale avverrà la discussione. Se invece si subisce il contesto e le metafore dell’avversario, si può star certi che si perderà, perché ci si troverà sempre all’inseguimento e su di un terreno scelto dagli altri. Lakoff documenta come la destra repubblicana negli Stati Uniti sia stata particolarmente abile in questo gioco, a differenza dei Democratici, e osservazioni analoghe valgono certamente anche per l’Italia.

Ai liberal americani Lakoff suggerisce dunque la strategia del reframing, cioè del reincorniciare le questioni, ricordandosi sempre che l’elettore non vota soltanto in base a valutazioni di utilità materiale, ma anche – e sovente soprattutto – in base a dei valori in cui sente di potersi riconoscere anche se implicano dei sacrifici. Lascia anche intendere, il professore, che non si tratta di un problema di slogan e di campagne di comunicazione e il pensiero va alla oziosa discussione italiana se Prodi e il suo portavoce stiano sbagliando tutto. Le cornici infatti non sono invenzioni propagandistiche, ma reggono se alle spalle c’è elaborazione culturale, think tank, libri e ricerche. Egemonia culturale insomma, quella che una volta c’era e che, pur dall’opposizione, dava peso alle idee di sinistra. Soprattutto, aggiungiamo noi, coraggio intellettuale di sfuggire alla trappola dell’apparente senso comune.

 

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Comunicazione politica / La voce di un portavoce

Posted by franco carlini su 2 novembre, 2006

Silvio Sircana è il comunicatore di Romano Prodi. Domenica scorsa è stato messo alla griglia da Lucia Annunziata su Rai3. La domanda era: «avete sbagliato la comunicazione o c’è un deficit nella vostra politica»?  La risposta sincera è stata in sintesi questa: «un po’ tutte e due, una miscela». Cade finalmente il facile alibi cui molti politici fanno ricorso che «è tutto un problema di comunicazione». Da uomo delle Pr qual è da 30 anni, Sircana sa bene che quando si ha un prodotto di valore è (relativamente) facile comunicarlo – e viceversa.

Fin qua il noto, ma il dialogo ha offerto altre cose interessanti. Intanto la conferma che la decisione assai irrituale di rendere pubblici i contenuti degli incontri con Tronchetti Provera fu assunta da Prodi e Sircana consciamente «per dare un segnale all’altra parte» che stava facendo circolare una versione non veritiera.  Un gesto inusuale, segno di uno scontro acceso, ma anche una lezione a tutti: se si discute con il governo lo si fa seriamente. Sembrerà  arrogante, ma è ben detto.

Secondo, che c’è un circuito perverso delle notizie politiche e soprattutto dei retroscena: «Oggi ho letto cose che non sono mai successe» dice Sircana, e Annunziata conferma che c’è un cortocircuito giornalisti-politici, fatto di messaggini trasversali, più importanti del vero. Il che, detto per inciso, è uno dei motivi per cui molti lettori saltano di brutto quelle  pagine.

Terzo, ha aggiunto Sircana, riferendosi all’eloquio di Prodi: non si cambia il modo di parlare, non si va all’Actors Studio per imparare a recitare e riempirsi di fard.

Infine: quando una finanziaria viene discussa con le parti sociali, siano essi sindacati, Confindustria o Regioni, ogni parte comunicherà il suo punto di vista e un governo non può pretendere che emerga solo la sua versione. Trasparenza dunque della dialettica sociale che però, allora, sarebbe meglio gestita se, dopo ogni incontro, il governo stesso ne desse pubblicamente conto con la stessa nettezza con cui rispose a Tronchetti, così  fissando lui quella cornice di cui teorizza, nel box qui a fianco, il professor Lakoff.

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L’assassino quotidiano

Posted by franco carlini su 2 novembre, 2006

Alla ricerca dell’assassino dei quotidiani. Ma i colpevoli sono gli editori che hanno trasformato uno spazio pubblico di carta in un negozio di gadget e, contemporaneamente, in strumento di pressione politica sulla società, alla quale vogliono dettare l’agenda dei lavori e dei problemi. La Free Press rompe il velo e cerca solo pubblicità

«Is web killing the press»? Il web sta uccidendo la stampa? Questo il convegno che il centro studi Thinktel organizza con il Sole 24 Ore per il prossimo 24 novembre, a Milano, chiaramente ispirandosi a un dossier dell’Economist del 24 agosto che aveva un titolo altrettanto sanguinolento: «Who killed the newspaper?», ovvero «Chi ha ucciso il quotidiano?». Si notino le sfumature: per il settimanale inglese il processo è già avvenuto e si tratta semmai di capire chi è il colpevole. Qui in Italia ci si chiede più speranzosi se il delitto stia davvero avvenendo.

Il mercato dei quotidiani è stato finora protetto dalla barriera linguistica (non sono possibili, in maniera massiccia, invasioni di prodotti stranieri), da una tecnologia stabile – semmai razionalizzata dalla sostituzione delle linotype con i computer – e da un compito socialmente riconosciuto e apprezzato, la diffusione tra i cittadini di notizie utili e interessanti per la vita civile. Ma non deve sfuggire il fatto che i media da sempre si sono assegnati un’altra missione, anche più importante, quella di stabilire la cornice, il frame, in cui le notizie hanno rilevanza e dunque di fissare l’agenda alla politica. Se la CocaCola ha come ragione sociale il vendere più lattine possibili, il fine vero di molti editori non è di fare profitti vendendo notizie, ma di influenzare i governi, sostenendo, sia direttamente, che indirettamente, gli interessi, legittimi ma di parte, dei loro proprietari. Sono lobby a tutti gli effetti che da un lato cercano di ispirare il pubblico dei propri lettori e dall’altro il quadro politico.

Il tema del frame è stato studiato dal docente di Berkeley George Lakoff (vedi il box nella pagina a fianco) e la sua specificità nel giornalismo italiano è analizzata dallo studioso Carlo Sorrentino nel suo ultimo saggio (Il campo giornalistico, Carocci).

Si noti anche che la questione dei nuovi media che incalzano e minacciano la stampa, di questi tempi, è agitata come un comodo alibi, un nemico oscuro, dalla Federazione degli editori (Fieg) che rifiuta di aprire le trattative con il sindacato dei giornalisti (Fnsi). La federazione sostiene infatti che l’emergere dei nuovi mezzi di comunicazione rende onerose le condizioni dell’editoria classica e che perciò di contratto non se ne parla nemmeno, a meno che non sia al ribasso. La posizione della federazione degli editori è leggibile sul loro sito web (www.fieg.it), la cui totale bruttezza conferma che effettivamente essi sono assai arretrati quanto a capacità di comunicare in rete.

Qualche nota tuttavia è utile. Intanto la crisi dei giornali non è di oggi e non ha come unica causa lo sviluppo impetuoso del web. Guardiamo i grafici americani: il picco massimo di vendite è del 1985, con quasi 63 milioni di copie vendute, dopo di che, e in particolare negli anni ’90, la discesa si fa netta e inarrestabile, fino ai 53 milioni dell’anno scorso. Dunque ha multiple cause, anche se la presenza del web probabilmente ha accelerato il fenomeno negli ultimi anni, spingendo in giù la curva.

Gli editori per lungo tempo hanno sottovalutato la crisi anche perché, mentre le copie calavano, restavano alti gli introiti pubblicitari. Erano 25,1 miliardi di dollari, in America nel 1985 e sono stati 47,4 nel 2005. Sabato scorso i due settimanali femminili italiani, Io Donna (Corriere della Sera) e Donna D (Repubblica), avevano entrambi 500 pagine, per un peso complessivo di 1,8 kg circa.

Ma se i lettori scendono troppo, anche gli inserzionisti saranno meno attratti e questo è uno dei motivi per cui sono stati inventati i supplementi e i gadget con i quali poter certificare una tiratura dignitosa. Ed è esattamente il meccanismo in base al quale alcuni gruppi editoriali hanno deciso di saltare il fosso passando alla free-press dove il modello si rovescia da capo a piedi. Nel giornalismo classico contano i contenuti di valore, che porteranno lettori, i quali, se numerosi, attireranno a loro volta l’interesse degli investitori di pubblicità. Nella free press, i contenuti sono quasi inessenziali, hanno un costo di produzione basso, la carta è poca e brutta, ma l’importante è poter dimostrare ai centri media che pianificano le inserzioni, che quelle paginette vanno in mano a milioni di persone, tutti i giorni. Non per caso è in atto un robusto braccio di ferro da parte degli editori gratuiti che chiedono di essere anche loro certificati, per poter sventolare con credibilità i numeri della loro diffusione. Quello free è un giornale che non si sceglie (non c’è un atto d’acquisto), ma che viene messo in mano; non presume di essere di qualità, ma si fa accettare solo perché non costa nulla a chi lo riceve. Fa eccezione in questo quadro il recente lancio di e-polis (www.epolis.sm/), un quotidiano gratuito dell’editore Nicola Grauso, presente in 15 città, da Treviso a Roma e Milano, che con le sue 64 pagine vuole essere un giornale-giornale. Il progetto (25 milioni di investimento) è ambiziosissimo e visto con grande preoccupazione dagli altri editori: se avrà successo molti potrebbero fare a meno del Messaggero o della Stampa (che non per caso sta correndo verso il tabloid).

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La crisi della carta che non è di carta

Posted by franco carlini su 2 novembre, 2006

Qualche domanda sulla inarrestabile caduta di vendite dei quotidiani. Non è vero che manchi la domanda di informazioni e conoscenze, ma serve tempo per leggere, e si sceglie di leggere solo se ne vale la pena, ossia quando si chiude il giornale almeno un po’ arricchiti. Lo dicono i lettori, anche non comprandoci più

Come spesso avviene nella storia, la causa di una crisi o di un collasso, non è mai una sola. Nel nostro caso se un prodotto che era di successo – il quotidiano – ora si vende meno e continua a perdere clienti può essere che (a) quel tipo di prodotto non corrisponda più ai bisogni, desideri e stili di vita del pubblico, oppure (b) che quei bisogni ancora ci siano, ma che non siano più soddisfatti dall’offerta attuale, e allora il consumatore sceglierà la strada del farne a meno, l’exit.

Nel caso dei giornali sono vere entrambe le cose. il desiderio di essere informati in maniera completa e di avere delle chiavi di lettura della realtà sembra riguardare oggi, nei paesi dell’occidente, solo una parte delle persone; molti altri, invece, vivono tranquilli facendone a meno e questo ritrarsi dalla pubblica piazza, a sua volta, è frutto della crisi delle comunità nazionali (quelle locali in qualche modo sopravvivono, magari facendosi molto solidali al proprio interno, ma ostili verso l’esterno). Il ritiro nel privato discende dall’assenza di speranze e di idee forti per il futuro e dal discredito generalizzato della politica.

Il che non significa che la voglia di sentirsi parte di un progetto sia sparita per sempre. Essa si aggancia, sopravvivendo, a singole questioni, magari locali ma praticabili, dove si può agire. Infiniti episodi confermano che il popolo, la società civile, sovente si mobilitano, non appena abbiano occasioni sensate di farlo. Persino per nominare Prodi candidato, quando la cosa era fuori discussione, ma importava far vedere l’adesione a un progetto. Si direbbe dunque che di un’informazione ben fatta, nonostante tutto, ci sia bisogno e che tale prodotto-servizio possa essere apprezzato e venduto. Sembra altrettanto certo, lo dicono i numeri, che i quotidiani di oggi non rispondano a tale bisogno. Perché sono fatti male? Perché altri mezzi di comunicazione lo fanno meglio? O per quale altro motivo?

 

C’è intanto, e non da oggi, un problema di sovrabbondanza dell’informazione, che il web ha ulteriormente accresciuto. Un’indagine dell’università di Berkeley, dice che nell’anno 2002, si sono prodotti 5 exabyte (miliardi di miliardi) di nuova informazione digitale, dove quella che scende su carta è una percentuale minima, lo 0,03 per cento, e i quotidiani solo l’8,4 per cento dei documenti di carta. Il che conferma l’irrilevanza percentuale dei giornali, i quali si trovano nel bel mezzo di quella che viene chiamata Economica dell’attenzione: c’è un’abbondanza enorme di contenuti informativi, di conoscenza e di intrattenimento cui corrisponde però una risorsa scarsa, il tempo delle persone per usufruirne. Ogni sera una singola persona può decidere se leggere un libro, ascoltare della musica, vedere la televisione, navigare sull’internet, giocare con i figli, fare l’amore, andare al bar con gli amici, andare a cinema o a teatro. Con l’unica eccezione della radio, che si lascia ascoltare mentre si fa dell’altro, tutte queste attività sono mutuamente esclusive.

In questo quadro chi vuole essere informato ha molteplici possibilità, molte delle quali prima non c’erano: non solo radio e tv, ma anche internet e cellulari. La notizia dell’incidente nella metropolitana di Roma era nota alla gran parte degli italiani nel giro di pochi minuti, attraverso telefonate e Sms. Da quando milioni di italiani hanno accesso all’internet in casa o in ufficio, il bisogno di avere un orario dei treni è caduto e se ne vendono molti di meno. Analogamente per i cinema in programmazione nella propria città, accuratamente riportati da una molteplicità di siti. E gli esempi potrebbero allungarsi all’infinito.

Ma fin qua si tratta solo di sostituzione: stessi contenuti di prima che però possono essere raggiunti con altri canali, istantaneamente e gratuitamente. Che il Corriere o la Stampa possano essere letti dal web, abbonandosi, non altera significativamente il quadro: c’è sempre una redazione che scrive per il giorno dopo, e lo fa con i formati e lo stile consolidato del quotidiano di carta; il web è solo un canale di distribuzione aggiuntivo; l’ipertestualità e la multimedialità tipici della rete quasi non esistono e vengono semmai affidati ai siti paralleli delle stesse testate classiche, www.corriere.it, www.lastampa.it eccetera.

La citazione della Stampa non è casuale perché il 19 novembre cambierà totalmente formato e insieme rinnoverà in maniera profonda il suo sito web. Una discussione tra i lettori segnala quanto il problema dell’insufficienza dei quotidiani sia sentito. Scrive per esempio Enzo La Barbera da Palermo: «Quando apro un quotidiano nazionale ho l’impressione di leggere il giornale del giorno prima. Quasi tutte le notizie sono state ampiamente dette da Tv, Internet, Televideo ecc. Cerco allora la ‘firma’ autorevole per un’opinione di qualità. Se manca non provo interesse…». Che poi, a ben vedere, è quanto sostenne a suo tempo il politologo americano Neil Postman: «i giornali dovrebbero disinteressarsi dell’informazione e interessarsi alla conoscenza». Dove per conoscenza si deve intendere «un’informazione organizzata, ovvero un’informazione racchiusa in un contesto, che ha una finalità, che spinge a cercare altre informazioni per capire qualcosa del mondo. Senza un’informazione organizzata possiamo conoscere qualcosa che capita nel mondo, ma capiamo pochissimo del mondo» (Come sopravvivere al futuro, Orme editori, Milano, 2003).

Questo è anche il consiglio, interessato, che Pelle Törnberg, chief executive del gruppo Metro di giornali free press, dà ai quotidiani a pagamento: il solo modo in cui essi possono sopravvivere è di diventare più specializzati, alzare il loro prezzo e investire di più in migliori squadre giornalistiche (The Economist, 26 agosto 2006).

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giornali online / Alla ricerca della qualità

Posted by franco carlini su 2 novembre, 2006

Dunque giornali di carta e di qualità, suggeriscono gli esperti a chi voglia non solo sopravvivere, ma persino (ri)acquistare influenza nella sfera pubblica. Ma cosa vuol dire qualità giornalistica oggi? E poi, secondariamente, lo strumento di carta è l’unico?

La qualità, viene invocata da tutti coloro che vedono minacciato il proprio mercato, una volta tranquillo: fabbricanti di scarpe, stilisti, produttori di riso eccetera. Aumentare il valore delle merci attraverso la qualità è la risposta ai cinesi invadenti. Analogamente, di fronte all’invadenza della free press e dell’internet, editori e molti giornalisti si illudono pensando che di loro ci sarà sempre bisogno e che,  anche in un mondo dove tutti producono notizie, la bravura professionale continuerà a premiarli.  La tesi potrebbe essere sensata se effettivamente il giornalismo fosse di qualità medio alta, la qual cosa è oggi difficilmente sostenibile ed è semmai una delle cause della caduta nelle vendite. A coloro, specialmente giovani, che dei quotidiani fanno a meno si aggiungono quelli che abbandonano perché delusi. La cattiva qualità ha molti genitori: l’organizzazione del lavoro,  le poche risorse, le scelte editoriali delle proprietà e dei direttori, la stessa acquiescenza dei giornalisti. Il deterioramento coinvolge tutti e suscita sovente rassegnazione.  

Il guaio è che sulla qualità grava un micidiale pregiudizio: che essa significhi paginate di piombo, argomenti astrusi e inavvicinabili dal lettore-spettatore tipo. Eppure i numeri dicono il contrario: il Sole 24 Ore, per esempio, è riuscito a motivare la sua esistenza alla domenica, giorno in cui gli affari sono fermi e chiusi gli uffici dei commercialisti, inventandosi un Domenicale con i fiocchi; Alias del manifesto, ha la straordinaria capacità di farti misurare quanto sei ignorante di filosofia e di musica, ma specialmente di incuriosire e spiazzare e proprio per questo ha un suo pubblico pagante.

Insomma nei giornali (ma anche nei film e nei romanzi) la qualità è fatta di temi, contenuti e  linguaggio e quest’ultimo chiede fatica e impegno. L’autore delle due pagine assai tradizionali che state leggendo  si chiede (ma il tempo non glie lo consente e forse non ne avrebbe le capacità) come le stesse idee potrebbero essere scritte, impaginate e illustrate in altra maniera, sia sulla carta ma a maggior ragione sul web: in quest’ultimo caso al lavoro netto  di scrittura (diciamo due giorni pieno) occorrerebbe aggiungerne  altri due per cercare meticolosamente i link giusti (ma non tutti, solo quelli veramente importanti); per spezzare gli otto pezzi di queste due pagine e per meglio intrecciarli tra di loro; per cercare, magari su Flikr o su Google Images foto e disegni adeguati, non troppo piattamente illustrativi, ma nemmeno eccessivamente stravaganti, e infine per realizzare uno o due grafici che rendano visivamente i fenomeni descritti a parole.

(Certamente si fa prima, come ha fatto un grande quotidiano nazionale dieci giorni fa, a leggere il Guardian, tradurre in italiano le otto opzioni di uscita dall’Afganistan e disegnarci sopra una bella pagina, naturalmente senza citare la fonte!).

 

E i giornali online? Ci sono testate che esistono solo in rete, progettate specificatamente per questo medium. Una delle più famose è la californiana Salon, un’altra, ormai consolidata, è Slate. Sono riviste vere e proprie, talune settoriali (tantissime parlano di tecnologia). Il modello è tradizionale, nel senso che al centro c’è una redazione, c’è una periodicità è c’è un indice del numero, cui corrispondo degli articoli classici. A cambiare rispetto alla carta c’è ovviamente il canale di distribuzione (la rete stessa) e i link tra i diversi articoli. Si finanziano con la pubblicità e/o con gli abbonamenti.

Ci sono siti web appoggiati a testate di carta che già esistevano prima, per esempio dei grandi giornali o settimanali (come Business Week, o l’Economist). I siti dei quotidiani hanno delle notizie fresche durante il giorno, ma sono quasi sempre preoccupati all’idea di «bruciare» quanto pubblicheranno il giorno dopo. Per i periodici questo problema non si pone, ché anzi il sito web li aiuta a colmare i vuoti tra un’uscita e l’altra; i settimanali dunque offrono notizie fresche e brevi durante la settimana e gli articoli importanti all’uscita in edicola. Spesso consentono la lettura completa solo a chi sia abbonato: alcuni articoli dunque sono Free, altri Premium.

Ci sono poi, non ancora mature, ma interessanti, un numero crescente di esperienze di giornalismo civico (dal basso, di base), dove le notizie vengono scritte dai cittadini. Si possono presentare in forma di blog ma anche, come nel caso di Ohmynews o di Newsvine, impaginate come un giornale.. Possono riguardare piccole comunità locali oppure comunità sparpagliate ma unificate da un tema. I contributi possono essere ceduti gratuitamente dai lettori-redattori o anche retribuiti.  Su questo fronte tutto è in movimento e in cerca di un equilibrio.

 

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