Franco Carlini. editoriale il manifesto 18 nov.
Come in occasione della manifestazione contro il precariato, anche ieri erano elettori del centro sinistra a manifestare nelle piazze. Scioperi e cortei decentrati, ma anche per questo più difficili. Il loro innegabile successo dice che esiste un problema serio per la ricerca e per il paese. Centinaia di migliaia hanno detto due cose: che c’è un bene pubblico minacciato e che questo governo sta smentendo le sue migliori aspirazioni riformiste.
Del resto non è certamente rivoluzionario arricchire istruzione e ricerca, tant’è vero che tutti i più furbi paesi capitalisti lo fanno, sapendo che lì si gioca la ricchezza delle nazioni. Sono cose che Romano Prodi sa benissimo e Tommaso Padoa-Schioppa figuriamoci, ma che sono state piegate miserabilmente ad altre esigenze che non sono né riformatrici né capitaliste.
La più clamorosa delle quali è l’aumento delle spese militari, ieri accompagnata dall’esenzione Ici agli edifici del clero, a favore del quale mantenimento ha votato persino l’onorevole Luxuria – il che ci conferma che molti, non appena eletti deputati, impazziscono.
Dunque due problemi in uno: quello di istruzione-ricerca e quello politico di una legge finanziaria che non ha orizzonti.Chiede sacrifici in larga misura inevitabili, ma non li indirizza a una visione; al contrario li sballotta tra cento lobby, dalla chiesa all’impettito ministro Parisi, uno che, del tutto immeritatamente, apparve un coraggioso riformatore. Dagli indennizzi ai sottosegretari alle attenzioni ai commercianti che hanno già aumentato cappuccino e brioche, giusto per non sbagliare.
La cosa è a tal punto vera che lo stesso segretario generale della Cgil, Mario Epifani, che nei mesi scorsi aveva dichiarato che non c’era da scioperare contro questo governo, ha avvertito che la marea della delusione sale, in puntuale contemporaneità con gli errori politici (non di comunicazione!) e dunque questo «è stato il primo sciopero contro questo governo … è stato giusto per il futuro del paese».
Per se stessi, certamente, e per il paese. Magari non contro il ministro Mussi che ha avuto due meriti: riportare gli investimenti almeno ai livelli precedenti e parlare chiaro, senza infingimenti, sia in Consiglio dei ministri che in pubblico.
Con un problema in più tuttavia: per un professore universitario come Margherita Hack che ha dichiarato di accettare volentieri il taglio del suo stipendio futuro, a protestare ce ne sono molti altri, veri e classici baroni e rettori, gli stessi che eliminarono Rosy Bindi dal ministero della salute nel primo governo Prodi. Oggi solidarizzino con i loro precari ma solo perché università e ricerca restino così come sono, un malandato feudo pre-68. Ai ricercatori senza tessera e all’Unione Studenti verrebbe da suggerire di percorrere anche l’altro terreno, quello della messa in discussione dal basso, e con determinazione, della miseria dell’insegnamento e della ricerca. Per usare un’altra metafora attualissima: si possono dare più soldi alle ferrovie e persino aumentare i biglietti, ma solo se il servizio dei trasporti (e quello dell’istruzione) viene riportato ai suoi fini, disincrostandoli dai poteri che li hanno inquinati.
Il che non ha nulla a che spartire con le ricette fasulle delle università in concorrenza tra di loro che i soliti professorini sventolano dall’alto della loro cattedra (universitaria). Ha a che fare, invece, con la ripresa di controllo e dal basso di un bene pubblico, soldi o non soldi, in ricchezza o in povertà.