Chips & Salsa

articoli e appunti da franco carlini

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Archive for 23 novembre 2006

editoriale / Washington, fuga dalla carta

Posted by franco carlini su 23 novembre, 2006

Sarah Tobias
Uno scossone dopo l’altro nella stampa americana; tremori destinati a propagarsi per il mondo e chissà prima o poi anche in Italia. L’ultimo microsisma è localizzato al Washington Post dove due importanti giornalisti politici, John Harris e Jim VandeHei hanno abbandonato la storica testata per lanciare una nuova iniziativa in rete, insieme al gruppo Allbritton Communications che a gennaio lancerà un nuovo giornale nella capitale, chiamato The Capitol Leader. La novità sta nella focalizzazione: solo politica e solo internet. O meglio internet più televisione, dato che i due hanno stretto accordi anche con la rete Cbs per una serie di apparizioni e commenti televisivi. Il gruppo Allbritton che possiede alcune stazioni locali via cavo e il suo presidente, Frederick Ryan Jr., ha dichiarato al rivale New York Times che il futuro del giornalismo sta in un approccio multipiattaforma, ma «senza il fardello delle vecchie istituzioni della stampa». Va ricordato che il Post è uno dei quotidiani che con maggiore convinzione ha perseguito un approccio integrato tra carta e web, riuscendo a farlo anche con buoni risultati economici e stringendo alleanze con diversi blog, usati come fonti esplicite. Resta tuttavia un’istituzione con organizzazione del lavoro e meccanismi molto classici. I due che hanno saltato il fosso pensano evidentemente che agilità di contenuti, ritmo 24 ore su 24, interazione intensa con il pubblico, siano meglio praticabili in un modello che nasca totalmente nuovo.
Nel frattempo il portale e motore di ricerca Yahoo! ha stretto un’alleanza con sei catene editoriali che controllano 176 testate locali variamente disseminate. Nella prima fase si tratterà soltanto di una integrazione in Yahoo! dei servizi di annunci di lavoro che risulteranno disponibili non solo sulla carta, ma anche sul web. Ma questo è solo il primo passo. Quello successivo è di far sì che anche le notizie locali (che sono la forza delle piccole testate) possano vivere anche in rete, così costituendo un network superlocale.
La parola d’ordine, dunque, è l’integrazione tra partner: ai piccoli quotidiani conviene allearsi con i motori di ricerca (altri 50 l’hanno già fatto con Google) per evitare che i loro annunci finiscano solo in rete; nello stesso tempo i motori di ricerca possono avventurarsi nel mercato locale, offrendo mappe, guide utili e notizie che da soli non potrebbero mai procurarsi.

Pubblicità

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Il giallo del giornalista spiato

Posted by franco carlini su 23 novembre, 2006

Massimo Mucchetti rivela cosa cercavano gli «incursori» nei computer suo e dell’a.d.
La presa delle banche e dei gruppi di controllo sui quotidiani italiani. Sta lì la malattia della stampa secondo un vicedirettore del Corriere della Sera

Franco Carlini
Raramente capita di leggere un libro così documentato e così sotto tono. Così clamorosamente critico dei poteri finanziari e pseudo-industriali e insieme così aperto alle speranze di un giornalismo (e di un Corriere della Sera) migliore. Parliamo de «Il Baco del Corriere», scritto per Feltrinelli da Massimo Mucchetti che del quotidiano milanese è vicedirettore ad personam (cioè senza cariche operative). Sullo stesso quotidiano ha ricevuto un’intera pagina curata da uno dei vicedirettori operativi, Dario Di Vico, il quale nell’elogiarlo ne ha preso le debite e diplomatiche distanze. Con tempestività se ne è occupato anche Gad Lerner, nella sua trasmissione l’Infedele, sulla 7, televisione controllata da Telecom Italia.
Entrambi gli episodi ci dicono come il lavoro sui fatti – e non sui pettegolezzi – condotto da Mucchetti abbia preso nel segno: il sindacato di controllo del gruppo Rcs (che edita il Corriere) e Pirelli, azionista di controllo Telecom Italia, sono infatti due degli obbiettivi polemici del libro e se hanno deciso di non far finta di niente, vuol dire che il libro dirà forse cose contestabili, ma con un’alta dose di fondamenti.
Le 182 pagine sono idealmente dedicate a un hacker sconosciuto, che Mucchetti non conosce, ma di cui immagina i connotati. E’ colui che agli inizi del novembre 2004 cerca di entrare con un trucco nel suo computer in redazione e, nella stessa occasione, in quelli di Vittorio Colao, da poco nominato amministratore delegato del gruppo e di altri dirigenti, come Colao provenienti da Vodafone Italia. L’attacco informatico veniva da computer stranieri, attivati però dall’Italia dalla solita squadra Tavaroli in Telecom Italia e le indagini sono ancora in corso. Tavaroli è in carcere dove presidia i segreti, non si sa se per non aggravare la sua posizione o per coprire altri. Diranno i giudici, se potranno.
A quell’incursore abusivo e a tutti noi Mucchetti spiega dunque cosa avrebbe potuto trovare nel suo computer: un insieme ben ordinato di folder chiamati per esempio: Cartella Albertini (il direttore-proprietario del Corriere silurato dai Crespi per piegarlo al regime fascista), Cartella Azionisti Rcs, Cartella MTP (Marco Tronchetti Provera), Cartella Proprietà Ideale (dei quotidiani) eccetera. Non sono però rivelazioni sconvolgenti, non ci sono segreti particolari, né dossier riservati, ma solo il paziente incrocio di studi e ricerche su fatti noti della finanza, riscontrabili soprattutto nei bilanci societari. Le stesse cose del resto che Mucchetti continua a scrivere settimanalmente sul suo giornale.
Sono però cifre scomode, come quelle che consentono alla famiglia Agnelli a mantenere il controllo della Fiat, dando mandato alle solite banche d’affari, pronte a tutto in cambio di debito onorario, a comprare segretamente azioni per conto loro, fidando nella risalita. O come la fallimentare conquista di Telecom Italia da parte di Tronchetti Provera, al prezzo di bruciare miliardi sia degli azionisti Pirelli, che del colosso telefonico. Doveva essere l’erede di Gianni Agnelli, cioè l’industriale italiano per eccellenza, ma quell’obbiettivo è ormai del tutto mancato.
Sono anche analisi in controtendenza: la ricostruzione dell’estate 2005, all’insegna di Fiorani-Ricucci e di Unipol-Bnl contrasta con tutte quelle allora scritte: Ricucci non fu mai un serio pericolo per il Corriere, anche grazie a un codicillo che il notaio Marchetti saggiamente aggiunse al patto di sindacato e che l’allora consulente Guido Rossi suffragò di un parere legale. La supposta scalata semmai servì a rafforzare, ma del tutto provvisoriamente, l’unità dei principali azionisti, che pochi mesi dopo sarebbe tuttavia deflagrata, portando al licenziamento (vestito da dimissioni spontanee) di Vittorio Colao. Se per caso Paolo Mieli lasciasse per la seconda volta la direzione di via Solferino, la cosa non andrà letta allora, sembra di capire, in termini di linee editoriali o di posizionamento politico, ma semmai guardando allo scontro Intesa-Capitalia. Della vicenda Unipol l’autore segnala sì le scorrettezze gravi di Consorte, ma anche la minaccia per i poteri economici prevalenti che un quinto polo economico e finanziario avrebbe costituito. Il tentativo di collegare le due vicende fu allora tutto politico, mosso soprattutto dalla Margherita, in esplicita guerra ai Ds, con Fassino stritolato nel mezzo da intercettazioni illegali e illegalmente diffuse.
Il cancro dei giornali italiani (Corriere e non solo) resta, secondo Mucchetti la proprietà, che di solito non ha fini editoriali, ma di lobby, ma soprattutto l’indebita presenza delle banche, le vere padrone. Da qui il sogno (ma è davvero tale?) di testate quotate in borsa con azionariato diffuso, ma anche dotate di un’Azionista Speciale, fornito di una sola azione ma con larghe possibilità di intervento a garanzia della totale indipendenza. Solo che lo volessero, gli azionisti di Rcs potrebbero farlo, imitando esperienze straniere come quella dell’agenzia Reuters. In tal caso, dice Mucchetti, passerebbero alla Storia, ma la sensazione, purtroppo è che preferiscano pensare «alla cronaca dei loro personali interessi».

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spionaggi quotidiani / Quel verme nel computer di Colao

Posted by franco carlini su 23 novembre, 2006

Secondo massimo Mucchetti gli spioni che cercarono di entrare nel suo computer al Corriere della Sera lo fecero in questo modo: a una serie di indirizzi di posta elettronica (di Mucchetti stesso, di Vittorio Colao amministratore delegato del gruppo, di Barbara Poggiali, capo della pianificazione strategia, di Carlo Fornaio, direttore delle relazioni esterne e di altri) venne mandato un messaggio che fingeva di arrivare dall’Help Desk informatico del gruppo, ovvero dai gestori dei sistemi informativi. Proveniva in realtà da un server uruguayano e da uno coreano. La mail invitava in destinatari a scaricare un piccolo programmino (uno script, in gergo) che avrebbe ottimizzato il sistema di posta elettronica. Mucchetti, che non ama particolarmente le tecnologie, non lo fece e il suo computer passò indenne all’invasione, mentre Colao, noto appassionato, e forse altri, seguirono il consiglio. Lo script in realtà era un worm (verme, o baco informatico) chiamato TrojanDropper.vbs.inor.e (ne esistono molte versioni, identificate da diverse lettere). non si tratta di un virus che provochi malfunzionamenti ma di un downloader, ovvero di un software che scarica sul computer in cui è penetrato un altro programma, il quale a sua volta può per esempio prelevare file di archivio e spedirli in copia altrove. Tra i materiali rubati dal computer di Colao c’era una prima versione del piano strategico del gruppo. E’ possibile che siano stati esportati anche archivi di posta elettronica. Spionaggio industriale dunque, ma dall’esterno o su ordine di qualche azionista del gruppo stesso? E’ interessante notare come Colao, proveniente da Vodafone Italia fosse entrato in carica da soli tre mesi. L’episodio è del tutto analogo a quanto avvenuto nella casa americana di computer HP, dove però fu la presidenza del consiglio di amministrazione a incaricare un’agenzia privata di spiare consiglieri e giornalisti.

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parole nuove / Affidarsi alle folle intelligenti

Posted by franco carlini su 23 novembre, 2006

Quelli di Wired, la rivista che nella metà degli anni ’90 fu bibbia e motore della prima esplosione nel web, non sono più sull’onda come un tempo, ma non cessano di guardare avanti e soprattutto di inventare parole suggestive. La più recente, che già riceve quasi due milioni di citazioni su Google, è Crowdsourcing. Compare per la prima volta in un articolo di Jeff Howe e Mark Robinson nel giugno 2006. Lo stesso Howe ha aperto un blog con questo nome. L’idea è chiaramente in opposizione all’outsourcing, ossia al delegare al di fuori di una organizzazione, e magari all’estero, una serie di attività. In Italia lo chiamavamo appalto a terzi. Invece crowd è la folla, la moltitudine e perciò, in questa fusione di termini, il crowdsourcing significa che alcuni compiti, anche importanti, sono affidat fuori, a volontari gratuiti o a collaboratori a tempo parziale, di solito poco pagati. L’idea «filosofica» sottostante è analoga a quella delle reti sociali (social networks), dei progetti collaborativi Open Source, degli sciami intelligenti (smarm), dell’intelligenza collettiva, dei contenuti generati dagli utenti (Ugc). Non si pretenda dunque, almeno per ora una definizione precisa. E’ abbastanza chiaro tuttavia, al di là delle successive mode linguistiche, che questo insieme di teorie e di pratiche sta diventando un nuovo paradigma sia culturale che organizzativo. E anche un affare: si pensi alle prove e collaudi dei nuovi software, opera difficile e costosa che di solito le grandi aziende facevano in casa, con propri dipendenti. Ma l’Open Source, il software aperto, offre la possibilità di affidare a volontari i test delle successive versioni alfa e beta, quelle che ancora devono scendere sul mercato. Ormai lo fanno tutti, in questo modo risparmiando forza lavoro e garantendosi una massa di collaudatori (i beta tester) ognuno dei quali porta il suo prezioso contributo.

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noBlogs / Socialmente connessi

Posted by franco carlini su 23 novembre, 2006

Alessandro Delfanti
«Blog senza logs»: la nuova piattaforma di blog messa a disposizione dal server autogestito di Autistici/Inventati si chiama Noblogs (http://noblogs.org) e, in linea con la tradizione del collettivo di A/I, fornisce garanzie di anonimato e privacy. Anche evitando di conservare i log, le tracce delle operazioni che permettono di risalire a ogni movimento che facciamo su internet. Insieme a Noblogs, «contenitore di trame, energie spontanee ed autoorganizzate», Autistici/Inventati ha lanciato un servizio di social bookmarks (http://link.autistici.org) simile al più noto del.icio.us. La ricetta è semplice: «Conserva i tuoi link preferiti in un unico posto raggiungibile ovunque. Condividili con chi vuoi. Assegna delle etichette in modo da poterli organizzare secondo le categorie che preferisci». Ma quando a cliccare per segnalare ed etichettare i link migliori è un intero network come quella di A/I, il risultato è l’organizzazione sociale delle informazioni, anche se mediata da una tecnologia. Aprire un blog su Noblogs significa quindi partecipare a una rete sociale e non solo disporre di uno strumento ormai diffusissimo, che permette a chiunque di pubblicare contenuti informativi. Organizzati dai motori di ricerca e dai sistemi di condivisione come i bookmarks, capaci di aggregare per tematiche o per eventi i milioni di articoli pubblicati ogni giorno e sottoporli al giudizio della rete degli utenti, i blog si stanno dimostrando un’eccezionale forma di comunicazione emergente.
Un magma sorprendentemente capace di rispondere agli avvenimenti, per la sua efficienza nel registrare le notizie ma anche nel produrre analisi libere e mature. Nell’universo piccolo ma particolarmente attivo dell’informazione libertaria e dell’autogestione, l’associazione tra blog e sistemi di condivisione delle risorse potrebbe dar vita a un media che sfrutta pienamente le nuove caratteristiche sociali della rete. Soprattutto se A/I terrà fede alla sua promessa di «sviluppare ulteriormente» il progetto, «oltre il singolo blog, sperimentando con il concetto di comunità».

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Quotidiani per comunità

Posted by franco carlini su 23 novembre, 2006

Agostino Giustiniani
Movimenti quotidiani. Quindi giorni fa Il Secolo XIX, quotidiano di Genova e della Liguria (120 anni di storia) ha cambiato faccia. Domenica scorsa ha fatto altrettanto La Stampa di Torino, modificando anche il formato della carta e la struttura del suo eccellente sito. In entrambi i casi, e seguendo l’esempio dei concorrenti maggiori, si passa a un pieno di colore in tutte le pagine che serve soprattutto per la pubblicità, mentre di solito aggiunge abbastanza poco all’informazione.
La policromia viene chiesta dagli inserzionisti e dall’altro può essere venduta a prezzi migliori. Le 64 pagine semi-tabloid della Stampa (44,5 centimetri per 31 circa), frutto di tre anni di lavoro e di 60 milioni di euro di investimento, sono un bel colpo per i lettori più tradizionali, e non per caso il direttore Giulio Anselmi ha spiegato loro che è «tutta nuova senza esagerare» e che «questa trasformazione radicale non segna una brusca rottura con il passato». Anche se la diffusione del quotidiano torinese è abbastanza localizzata nel nord ovest, esso tuttavia resta un giornale nazionale che conta, malgrado le passate direzioni con la testa rivolta altrove (Carlo Rossella e Guido Sorgi). Lo sforzo prevalente è di ordinare e evidenziare notizie e opinioni, nel nuovo mondo delle news «sempre più ridondanti e complesse» e questo è esattamente il problema di ogni medium, oggi.
La storia del «Decimono» interessa per altri motivi. Intanto perché è una testata regionale, diffusa specialmente in Liguria e nel basso Piemonte e poi perché è probabilmente l’ultimo dei grandi giornali italiani di proprietà di un editore puro, uno cioè che ha come attività principale di fare informazione. E’ dal 1908 che la famiglia Perrone, ora arrivata alla quarta generazione con Carlo, possiede questo giornale. Un tempo aveva anche Il Messaggero di Roma la cui proprietà e indipendenza Alessandro Perrone difese strenuamente nel 1974, purtroppo senza successo.
Molti altri invece sono controllati da azionisti singoli o in patto tra di loro che hanno altri interessi come finanza, energia, edilizia e che con la proprietà di uno o più quotidiani insieme celebrano se stessi e esercitano influenza sull’agenda politica.
Ma per restare in Liguria: la nuova forma è radicale nella semplicità. Non sconvolge il lettore, che in Liguria è abbastanza anziano e piuttosto tradizionale, ma lavora d’aria. Il progetto è di Mario Garcia, un designer cubano-americano. Sotto la testata compare una «barra di navigazione» (proprio così la chiama il direttore Lanfranco Vaccari, prendendo a prestito il termine dai siti web) che propone alcuni servizi nazionali e internazionali. Una barra verticale a sinistra, sempre in prima, evidenzia invece le notizie di importanza locale. All’interno le pagine sono evidentemente modulari, tra di loro abbastanza simili a evitare fatiche di lettura e facilitare le scansioni. Sono costruite a partire da pochi moduli base che possono venire montati tra di loro, come fosse un Lego. Due i tipi di caratteri usati, il Chronicle e il Gotham; quest’ultimo si chiama così prendendo il nome dalla città di Batman. Le sezioni hanno una testata ben visibile e colorata che ha molti è apparsa persino eccessiva e troppo moderna.
La regionalità si concretizza nel secondo dorso, che è diverso a seconda delle quattro province. E’ un costo elevato, perché servono redattori e uffici locali, ma anche un valore, se è vero quanto gli studiosi dei quotidiani vanno sostenendo, ossia che nella crisi generale della stampa quotidiana e generalista, sono proprio le testate «minori» ad avere più spazio e futuro, sia per le notizie che solo loro possono dare, e che il pubblico non trova da nessuna altra parte, sia per la raccolta pubblicitaria. Anche qui torna la lezione americana dove su un totale di 1452 testate ben 1242 (l’85 per cento) sono locali, con tirature inferiori alle 50 mila copie e dove quelle sopra le 250 mila copie sono soltanto 34, ovvero un misero 2,3 per cento. E del resto è proprio a tale localizzazione che sta puntando l’editore sardo Nicki Grauso con il suo free press chiamato e-Polis, diffuso già ora in una dozzina di medie città italiane, oltre che a Roma.
All’interno di questa tendenza a parlare alla comunità locale e a mettersi al suo servizio, una spinta ulteriore viene dall’internet, perenne fonte di invenzioni oltre che di neologismi. Lo chiamano dunque «hyperlocal journalism» e uno dei casi più classici è il minuscolo Barista of Bloomfield Ave (www.baristanet.com) che anima la comunità di Bloomfield, New Jerseyç 47.683 abitanti su , 12.075 famiglie. L’ha fondato Debbie Galant (www.debbiegalant.com) che per cinque anni fu commentratrice al New York Times e che ora si dedica esclusivamente a questo sito-blog che è una miscela di mini di cronaca, di giornalismo dal basso e di servizi alla comunità. Con una certa cattiveria queste esperienze sono state definite come «una specie di newsletter di una chiesa o di una comunità», e tuttavia vanno crescendo: varrà la pena di vederle da vicino.

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Luoghi della conoscenza

Posted by franco carlini su 23 novembre, 2006

Incontrarsi e discutere nei luoghi di insediamento della conoscenza
Nuove potenzialità e nuove soggettività nel mondo della «knowledge society». Dall’Unione degli studenti una proposta e una richiesta di confronto sulla libertà di arricchire la propria formazione in ogni fase della vita

Giuseppe Di Molfetta (*)
Quanto nella società del nuovo millennio il ruolo della conoscenza e dei saperi sia cruciale risulta evidente alla luce di come i governi e le grandi multinazionali dibattono su come precluderne l’accesso sia a singoli che addirittura a interi popoli. Tra l’altro le analisi attualmente in voga ci convincono facilmente di come la quantità di sapere di cui uno dispone e l’uso che gli è consentito farne sono il discriminante nella definizione dei ruoli sociali e sembra che l’attuale sfruttamento capitalistico, all’inverso di quello moderno, non crei differenze culturali e sociali ma si fondi su di esse: ergo, liberare le conoscenze e i saperi e dare ad un soggetto la possibilità, anche economica, di farne quello che crede a prescindere dalle fluttuazioni del mercato, è un rischio mortale per il capitalismo stesso.
All’interno della «knowledge society» il sapere assume la dimensione di fattore produttivo centrale, e se consideriamo il sapere come quel insieme di capacità eterogenee derivante dall’apprendimento esperienziale di un individuo all’interno di una comunità emerge un nuovo macro aggregato sociale in cui tutti finiscono per essere produttori di conoscenza. Tra di essi vi sono i lavoratori della conoscenza e soprattutto i soggetti in formazione che non assimilano solo conoscenza ma la rielaborano e la socializzano, come gli studenti o i dottorandi.
Spesso i soggetti in formazione non hanno la possibilità di utilizzare le proprie conoscenze nel modo che desiderano o almeno farne l’uso più coerente ad esse: questa impossibilità nella maggior parte dei casi è una derivata del reddito dell’individuo e del rapporto di esso al costo della vita. Non a caso assieme al dibattito sulla recinzione dei saperi e sui beni comuni, ne ha preso piede uno sul reddito di cittadinanza. Quest’ultimo infatti è lo strumento tramite il quale non solo ognuno può accedere ai diritti di cittadinanza più elementari, come poter istruirsi o banalmente andare a teatro, ma anche permettere al singolo individuo di ritrovare una propria dimensione autonoma dal mercato e costruirsi un progetto di vita più che una vita a progetto.
L’Unione degli studenti a partecipa alla promozione di soluzioni concrete come il reddito in chiave formativa che garantisca a tutti la possibilità di accedere ai saperi per tutto l’arco della vita, assicurando il diritto di ogni individuo a formarsi in modo autonomo e a disporre di pezzi della propria vita senza dover essere schiavo della precarietà. La stessa data del 17 novembre come giornata internazionale degli studenti, rappresenta il bisogno di ribellarsi e costruire la società del futuro su paradigmi diversi. Le realtà sociali e politiche del nostro paese hanno affrontato con superficialità questi temi spesso tramite timidi provvedimenti legislativi. Non si è riusciti ad ottenere il cambiamento perché si è letto il presente tramite le categorie tradizionali del lavoro, imponendo un’analisi fordista là dove era ed è necessario un approccio radicalmente innovativo. Eppure esiste una alternativa a questo grave scollamento tra la cultura sindacale e le nuove povertà, le nuove emarginazioni sociali e i nuovi bisogni collettivi: una forma di rappresentanza sociale che ha come luoghi di insediamento le scuole, le università. Non solo tuttavia i luoghi canonici del sapere, ma tutti quelli in cui vigono altri codici, altri linguaggi e altri saperi non formalizzati e non riconosciuti; quei luoghi quali le metropoli in cui l’individuo soffre la solitudine e il conflitto perenne con l’altro in termini di competizione di spazi e risorse di vita.
Noi dell’Unione degli Studenti vogliamo lanciare un appello affinché si convochi nel mese di dicembre una tavola rotonda di confronto-studio per un nuovo sistema di tutele sociali nella società della conoscenza, a cui vogliamo che prendano parte le esperienze sindacali del lavoro della conoscenza, i mediattivisti, i dottorandi e gli studenti delle scuole e delle università.
E in quel contesto dobbiamo declinare in modo concreto le nostre leggi regionali e la legge quadro nazionale sul diritto allo studio, quanto chiedere l’abrogazione della legge Urbani, la rivisitazione della normativa per il diritto d’autore, la promozione di software libero e open source e il libero accesso alle reti informazionali e globali. Dobbiamo avere il coraggio di stare insieme per chiedere una legge che garantisca l’apprendimento per tutta la vita, un nuovo status per le conoscenze, una battaglia per la libertà del sapere, perché non sia mercificato.
Crediamo che sia necessario cominciare quel lungo cammino in salita verso una società fondata su un nuovo sistema di tutele e diritti, convinti che sia il sapere una delle discriminanti fondamentali che determina le opportunità degli individui così come possiamo dirci che il diritto all’apprendimento e l’accesso alla conoscenza deve diventare una battaglia di cittadinanza come fu il diritto al lavoro nel ‘900.
* Unione degli Studenti

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metafore / magari la politica fosse un suk

Posted by franco carlini su 23 novembre, 2006

F. C.

Massimo D’Alema, in versione ministro, è meno pungente di un tempo, ma comunque efficace con la parole. Chiesto di commentare il licenziamento di Donal Rumsfeld, dopo la sconfitta elettorale dei repubblicani negli Stati uniti, ha risposto semplicemente «E’ la democrazia, bellezza», citazione di una delle frasi più memorabili del giornalismo indipendente. La pronunciò infatti il direttore Ed Hutchinson (Humphrey Bogart) nel film «L’ultima minaccia» (1952), così rintuzzando le pressioni di un boss. La frase originale è «That’s the press, baby. The press! And there’s nothing you can do about it. Nothing!».

Ottimo. Meno felice invece, e semmai decisamente fuorviante, è stato il commento dello stesso D’Alema al tormentato percorso della legge finanziaria: «Abbiamo venduto molto male un prodotto che si rivelerà molto meno negativo di come è stato recepito». Il che rimanda alla questione della cattiva comunicazione politica, perenne alibi di tutti i governanti. Altri risponderanno che, trattandosi di un prodotto cattivo, proprio per questo non riescono a piazzarlo.

Ma anche ammettendo con D’Alema che il prodotto sia valido, tuttavia c’è qualcosa che non funziona nella metafora troppo facile e ormai troppo logora, della politica come mercato, dove dei venditori-partiti propongono i loro programmi e dove gli acquirenti-elettori li acquistano votando. L’uso di questa figura retorica conferma che il deleterio luogo comune secondo cui tutto è mosso dall’utile e dal mercantilismo e che la democrazia possa essere descritta in termini di transazioni si è insinuato anche nelle teste più colte della sinistra. Lo stesso D’Alema aggiungeva che «sembra di trovarsi in un gigantesco suk arabo» e questa seconda metafora è comparsa anche in diversi altri commenti. L’ha usata per esempio Curzio Maltese, scrivendo del «variopinto suk allestito in Senato», con evidente valore negativo.

Eppure, piuttosto che da Wall Street, la politica semmai è meglio rappresentata dalla piazza del mercato, cioè un luogo dove avvengono anche delle transazioni economiche, ma dove si svolgono soprattutto delle conversazioni tra persone. Un sistema di scambi comunicativi, anche litigiosi e conflittuali, dove il prodotto non scende dall’alto, ma è il risultato di una molteplicità di atti linguistici. E’ la differenza tra il «comunicare a» e il «comunicare con».

Valga per tutte questa citazione da un volume che dalla metà degli anni ’90 è un classico delle nuove teorie del mercato: «Alcune centinaia di anni fa c’era la piazza del mercato. I mercanti ritornavano da mari lontani con spezie, sete e pietre preziose e magiche. Delle carovane arrivavano attraverso deserti brucianti portando datteri e fichi, serpenti, pappagalli e scimmie, strane musiche e strani racconti. La piazza del mercato era il cuore della città … La gente si alzava presto e veniva qui per il caffé e le verdure, le uova e il vino, le pentole e i tappeti, gli anelli e le collane, i regali e i dolci Venivano qui per guardare e ascoltare e meravigliarsi, per comprare e per divertirsi. Ma molti venivano qui soprattutto per incontrarsi gli uni con gli altri. E per parlare». Il volume si intitola The Cluetrain Manifesto (http://cluetrain.com ) e il suo sottotitolo dice appunto che «i mercati sono conversazioni». E’ stato una sorta di bibbia dell’internet nascente. In Italia è stato pubblicato da Fazi editore ed è ancora disponibile, oltre che attuale.

Se lo si guarda in questa luce, non c’è nulla di sgradevole nel suk che è un luogo, pubblico, dove le persone vanno essenzialmente per due motivi: intanto per vendere-comprare, e dunque per dotarsi di beni materiali di sussistenza, così soddisfacendo un bisogno primario, modernamente mediato dalla moneta, ma un tempo anche, più banalmente dal baratto. Ma ci vanno anche, e talora soprattutto, per raccontare, pettegolare, stare in contatto e dunque mosse da un desiderio di acquisire e coltivare dei beni immateriali, dei beni di relazione. Alla fine della giornata torneranno eventualmente con più denari in tasca, ma anche essendosi arricchiti di conoscenza e con dei progetti di vita comune, che si tratti di una festa la settimana successiva o di un pellegrinaggio alla Mecca, o qualsiasi altra cosa da fare insieme ad altri.

Certamente anche nella sale delle grida di borsa la gente si parla, ma nevrotica, agitata, a gesti e urla, e solo per scambiare azioni al miglior prezzo. Poi ognuno per sé. Nei mercati africani come asiatici, il ritmo è rilassato, non c’è lo spasmo, ci sono sorrisi e amicizie; perché dunque diffamarli di continuo, non senza un velo inconscio di razzismo?

A voler essere paradossali, ma nemmeno poi troppo, tutto questo lavorio attorno alla finanziaria, fatto di manifestazioni e lobby, di incontri ufficiali (i famigerati «tavoli» concertanti) e di campagne giornalistiche, non solo è normale, ma anche utilmente trasparente, quali che siano gli esiti e le valutazioni politiche che ognuno ne trarrà. Non è anche questo, e per fortuna, «la democrazia, baby?».

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