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parole nuove / Affidarsi alle folle intelligenti

Posted by franco carlini su 23 novembre, 2006

Quelli di Wired, la rivista che nella metà degli anni ’90 fu bibbia e motore della prima esplosione nel web, non sono più sull’onda come un tempo, ma non cessano di guardare avanti e soprattutto di inventare parole suggestive. La più recente, che già riceve quasi due milioni di citazioni su Google, è Crowdsourcing. Compare per la prima volta in un articolo di Jeff Howe e Mark Robinson nel giugno 2006. Lo stesso Howe ha aperto un blog con questo nome. L’idea è chiaramente in opposizione all’outsourcing, ossia al delegare al di fuori di una organizzazione, e magari all’estero, una serie di attività. In Italia lo chiamavamo appalto a terzi. Invece crowd è la folla, la moltitudine e perciò, in questa fusione di termini, il crowdsourcing significa che alcuni compiti, anche importanti, sono affidat fuori, a volontari gratuiti o a collaboratori a tempo parziale, di solito poco pagati. L’idea «filosofica» sottostante è analoga a quella delle reti sociali (social networks), dei progetti collaborativi Open Source, degli sciami intelligenti (smarm), dell’intelligenza collettiva, dei contenuti generati dagli utenti (Ugc). Non si pretenda dunque, almeno per ora una definizione precisa. E’ abbastanza chiaro tuttavia, al di là delle successive mode linguistiche, che questo insieme di teorie e di pratiche sta diventando un nuovo paradigma sia culturale che organizzativo. E anche un affare: si pensi alle prove e collaudi dei nuovi software, opera difficile e costosa che di solito le grandi aziende facevano in casa, con propri dipendenti. Ma l’Open Source, il software aperto, offre la possibilità di affidare a volontari i test delle successive versioni alfa e beta, quelle che ancora devono scendere sul mercato. Ormai lo fanno tutti, in questo modo risparmiando forza lavoro e garantendosi una massa di collaudatori (i beta tester) ognuno dei quali porta il suo prezioso contributo.

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