e-democracy
Posted by franco carlini su 25 novembre, 2006
Le incognite della (e)democracy dall’alto
(Anna Carola Freschi)
Negli ultimi anni anche in Italia l’attenzione sul tema della e-democracy si è estesa oltre la cerchia di un ristretto e caratterizzato numero di ‘addetti ai lavori’ (studiosi di reti virtuali e democrazia, utopisti e futurologi, osservatori e pionieri della frontiera digitale). Accantonato l’originario sogno/incubo della democrazia elettronica diretta, la crescita di interesse per l’e-democracy è stata incoraggiata da alcuni think thank globali e da alcune politiche pubbliche di livello europeo e nazionale specifiche.
Questo improvviso ed ecumenico successo del termine e-democracy, dopo anni di diffidenza della classe politica, così come la crescente enfasi sul tema della partecipazione, sollevato alcuni anni fa dai movimenti altermondialisti ed oggi quasi mainstream, consigliano un atteggiamento prudente e una maggiore attenzione critica su vincoli e opportunità aperte dalle sperimentazioni istituzionali. Se un noto rapporto della Hansard Society (2001) sulla democrazia elettronica recita (in modo un po’ sibillino) che «l’alternativa al coinvolgimento del pubblico non è un pubblico non coinvolto, ma un pubblico con una sua propria agenda e ostile verso un processo decisionale che appare ignorarla» forse è il caso di riflettere di più su questo cambiamento di clima.
Come noto, in Italia l’idea dell’uso delle reti digitali per favorire una nuova esperienza di cittadinanza si lega alla vicenda delle prime reti civiche. E’ un’idea che, con poche eccezioni, deperisce nel corso dell’ultimo decennio, per cedere il passo ad una versione di rete civica molto più orientata ai servizi, alla comunicazione istituzionale, al marketing territoriale: la città digitale dunque, una declinazione tendenzialmente tecnocratica della rete civica.
A questa tendenza concorrono diverse cause, in gran parte ascrivibili al progressivo ridursi del ruolo specificamente politico delle istituzioni democratiche, a favore di un profilo concentrato sulla gestione dei vincoli esistenti (di modello di sviluppo, di risorse finanziarie ed organizzative, culturali, etc.). Non che un’amministrazione più efficiente sia in contrasto con una democrazia di qualità, ma certo l’efficienza non è il carattere centrale della democrazia. Senza considerare che il concetto di efficienza è legato a quello di razionalità e che di modelli di razionalità ne esistono più d’uno. Per esempio, in quella stessa fase dai movimenti si esprimeva una razionalità alternativa a quella di mercato.
A fronte di ciò restava la grande difficoltà della classe politica a raccogliere la domanda emergente, informandone anche le proprie strutture e, attraverso queste, i propri contenuti. Cosa può essere cambiato in questo quadro complessivo negli ultimi anni perché la partecipazione dei cittadini diventi un tema rilevante nell’agenda politica e perché si individui nella tecnologia un valido supporto?
Molto e poco. Molto perché la rete ha dimostrato di essere una potente abilitatrice di partecipazione a partire dalle esperienze dei movimenti, locali e globali, seppur condividendo anche i limiti delle forme-movimento. La rete è diventata una fonte di informazione politica per un numero crescente di cittadine/i che sempre più la usano attivamente come produttori di informazioni e relazioni sociali, con aspettative crescenti in termini di tempestività e trasparenza dell’informazione pubblica. Si dirà che si tratta dei più politicamente attivi: certo, ma stampa e partiti hanno forse un carattere di massa più spiccato oggi? Altra novità, la rete è diventata, anche attraverso i motori di ricerca, un potente filtro sulla realtà. Il sistema dei mass media italiano ha poi dimostrato nell’ultimo quinquennio, soprattutto alla periferia del sistema politico, tutti i vincoli della sua concentrazione.
A ciò si aggiunga che sono cresciute le tensioni fra centro e periferia. I vincoli di spesa sono diventati ancora più pressanti, i processi di esternalizzazione più estesi. I conflitti sociali con specifico riferimento a politiche a forte impatto territoriale si sono fatti più aspri. Per tutti questi motivi le istituzioni politiche, ed in particolare quelle locali, non possono trascurare le potenzialità dei nuovi mezzi di comunicazione per la raccolta del consenso. Ma da altri punti di vista il quadro non è poi così cambiato. Il frame politico dominante con il suo imperativo efficientista è sempre centrale. La crisi di rappresentanza (e di partecipazione) dei partiti – per non parlare della rappresentanza del lavoro e dell’impresa – non sembra per nulla risolta. I partiti hanno usato le reti virtuali adattandole alle loro routine piuttosto che come strumenti di democratizzazione interna. E’ vero che sul versante dei cittadini viene confermata una elevata partecipazione al voto (e perfino alle primarie di coalizione), ma a questo non si accompagna un significativo rilancio della partecipazione nei partiti, verso i quali sembra prevalere lo scetticismo.
Più di un quarto degli italiani sono anti-partitici attivi, (critici verso i partiti e politicamente attivi) come evidenzia un recente studio di Vittorio Mete dell’Università di Firenze. C’è poi da considerare che le analisi disponibili sulle esperienze di e-democracy sono per lo più concordi nell’indicare i principali problemi. Tra questi lo scarso impegno dei politici nel dialogare e rispondere ai cittadini; lo scarto fra i risultati del dialogo e le ricadute sui processi decisionali; ancora, la debole pubblicizzazione e spesso il mancato collegamento fra sfera virtuale e processi attivati nelle sedi territoriali; infine le tensioni e i blocchi infra-settoriali all’interno delle amministrazioni proponenti e le resistenze dei soggetti collettivi più forti e strutturati, che vedono minacciato il loro controllo sulla rappresentanza.
Tutti aspetti che ipotecano gravemente le possibilità di allargare il numero di cittadini interessati alla partecipazione tout court, non solo alla sua rappresentazione elettronica. In buona sostanza emerge tanto l’insufficienza della tecnologia ad affrontare i problemi della democrazia quanto la refrattarietà degli intermediari classici della domanda politica (partiti e non solo) a sperimentare al loro interno pratiche partecipative innovative accettandone le implicazioni organizzative.
Considerati questi elementi di sfondo, cosa spinge oggi molte amministrazioni verso la democrazia elettronica? Guardando dentro le esperienze di e-democracy promosse in Italia scopriremo che l’idea di partecipazione sottesa è davvero molto varia. Un indice è lo stesso variegato e a volte indifferente uso dei termini partecipato, partecipatorio, partecipativo.
Tralascio aspetti problematici importanti come la prevalenza delle iniziative dei governi piuttosto che delle assemblee rappresentative, o i problemi della manipolazione del voto elettronico o della privacy dei cittadini (non certo sottovalutabili alla luce dei recenti scandali nazionali sulle intercettazioni), per concentrarmi su un aspetto relativo al modello di partecipazione.
Nonostante le premesse gettate nel 2004 dall’allora Ministero dell’Innovazione tecnologica con la «Guida per lo sviluppo di iniziative di cittadinanza digitale», che ancora oggi si leggono con sorpresa per la prima sezione palesemente favorevole a modelli di democrazia deliberativa-discorsiva – molti progetti di e-democracy adottano un’idea campionaria di partecipazione e di democrazia, che rimanda a quel processo di atomizzazione della cittadinanza così limpidamente sintetizzato dal termine ‘tecnopolitica’ coniato da Stefano Rodotà oltre dieci anni fa.
La diffusione di esperienze fortemente incentrate su panel di cittadini variamente rappresentativi è un segnale della presa di questo modello. Purtroppo o per fortuna la rappresentatività statistica di una popolazione e la rappresentanza politica non possono essere posti sullo stesso piano. La rappresentatività socio-demografica ha davvero poca rilevanza rispetto ad una ipotetica dimensione politica, soprattutto nella società di oggi dove la geografia delle appartenenze culturali e d’interesse è molto complessa.
Questo problema, non proprio secondario parlando del modo di rafforzare la democrazia, mette in evidenza un punto critico ricorrente in molte visioni sulla e-democracy (e sui processi partecipativi): la sottovalutazione o l’elusione di una dimensione sostanziale del confronto/conflitto politico. Per esempio, il gradualismo con cui ci si propone di sperimentare la partecipazione dei cittadini passando dalla progettazione di piazze e giardini , alla destinazione di piccole quote di bilanci comunali, alla definizione di dettaglio di alcuni servizi, senza mettere in discussione le scelte strategiche a monte, può rientrare in una concezione in cui i cittadini cooperano al miglioramento delle prestazioni amministrative di enti che hanno perso o rinunciato all’esercizio di una funzione strategica sulla definizione del futuro delle loro comunità territoriali. Una riforma seria della politica, più sensibile a nuove forme di partecipazione, non può limitarsi al pur importante campo della politica minuta, ma deve promuovere, anche a livello locale, un confronto ampio fra cittadini sulle grandi scelte cui sono chiamate le nostre società.
Insomma, il timore che l’e-democracy tutta dall’alto nella sua interpretazione campionaria e minimalista possa servire più ad incanalare o persino a prevenire la partecipazione piuttosto che ad assecondarla si rafforza. Soprattutto quando si pensi che una delle
“,0] ); //–> maggiori preoccupazioni all’interno di molte esperienze sembra essere quella di limitare l’influenza dei cittadini più attivi, più organizzati (ma non disciplinati in qualche forma organizzativa standard), in modo da garantire ‘eguali’ opportunità di parola ai cittadini più passivi e disinformati.
Ma allora perché non si investe con maggior incisività sulla democratizzazione della vita dei partiti? Dobbiamo essere perciò definitivamente pessimisti sulle chances offerte dall’e-democracy per la partecipazione? Non proprio. Da un bisogno sistemico della politica as usual possono nascere effetti latenti a favore di una partecipazione più sostanziale, soprattutto se i cittadini e le loro forme organizzate che interpreteranno la partecipazione come uno spazio per l’azione, andando oltre gli schemi preconfezionati loro offerti. La ridistribuzione delle risorse di potere, di agenda e decisionali, fra governanti e governati, con una più ampia e varia presenza dei cittadini nella sfera pubblica è chiaramente un obiettivo conflittuale in sé. Un obiettivo non routinario richiede più ampio accesso dei cittadini alla sfera pubblica ed una democratizzazione delle strutture di intermediazione della domanda politica e sociale, adeguate a valorizzare le forme auto-organizzate della cittadinanza, anche sfruttando le opportunità di rete offerte dalle nuove tecnologie come spazi aperti per la discussione e il confronto. Non basta la tecnologia a rilanciare la partecipazione, perché le difficoltà della democrazia non sono tecniche; così come non basta l’iniziativa istituzionale. Riusciranno le esperienze in corso a sottrarsi all’attrazione fatale della democrazia elettronica campionaria? Se i cittadini metteranno hackeristicamente «le mani sulla tecnologia» sarà più facile: altrimenti il rischio che questa diventi uno strumento ulteriore per eludere la domanda di partecipazione diffusa è davvero grande.
Laboratorio Eudemonia said
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Partecipare = essere parte
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Negli ultimi tempi si è evidenziata una tenace incapacità, da parte di coloro che si sono insediati, quasi senza più speranza che possano venirne estratti, all’interno dei sistemi di guida dei vari Paesi del mondo, a comprendere, ed a farvi fronte, le impellenti, grandi esigenze del nostro tempo.
Questa situazione, che nella pratica equivale a trovarci tutti su un immenso pullman planetario in cieca corsa senza nessuno al comando, sta conducendo, ovunque nel mondo, ampie schiere di cittadini ad interrogarsi sul come partecipare in prima persona alla vita civile del proprio Paese per fornire un personale contributo.
E subito, in tutti i Paesi progrediti, è sorto il problema che in effetti allo stato attuale delle cose le rispettive Costituzioni, pur adeguate al tempo in cui nacquero, non prevedono modi, adatti ai nostri tempi, che consentono ai cittadini di partecipare in maniera effettiva ed efficace.
Non a caso ormai quasi quotidianamente si svolgono manifestazioni di protesta, spesso il procedere insieme per le strade ed il rendere stracolme le piazze apparendo come l’unico modo per cercare di indirizzare l’attenzione delle autorità sulle necessità più impellenti.
Ma: come è possibile che, pur trovandoci in un tempo in cui già ci slanciamo verso lo Spazio e sguazziamo agevolmente nel Ciberspazio, non sia concessa ai cittadini una qualche possibilità di impegno e partecipazione più evoluta e fruttuosa che non le classiche processioni con cartelli e striscioni?
Possibile che in un’epoca di tripudio dell’intelligenza in tanti ambiti dell’umana espressione, in un’epoca in cui la tecnologia ha raggiunto vette perfino troppo elevate da divenire pericolose, l’ambito d’intervento politico per un cittadino debba ancora ridursi ad una così sottomessa, umiliante manifestazione d’impotenza?
Il fatto è che, accalcati come siamo, non riusciamo ad avere una osservazione genuina ed originale, non facendo altro che rimbalzarci l’un l’altro sempre le solite stracotte idee, proposte e procedure. Se ci allontanassimo un momento l’uno dall’altro, in una beata solitudine, osservando dall’esterno la presente situazione, ci accorgeremmo invece subito di una certa, molto interessante possibilità …
“Partecipare = essere parte” continua alla pagina:
http://www.hyperlinker.com/ars/partecipazione_2.htm
I migliori saluti,
Danilo D’Antonio
Laboratorio Eudemonìa
Via Fonte Regina, 23
64100 Teramo – Italy
giovanni flore said
Come verso la fine degli anni ’90, quando l’Internet-hype volgeva al tramonto, le aziende e le organizzazioni dei settori business gonfiavano i propri sistemi di tecnologie e set applicativi – e progetti interattivi – “alla moda”, senza sapere poi che farne effettivamente e sovvertendo spesso ogni logica di integrazione, così pare che oggi molte amministrazioni locali investano risorse in moduli tecnologici per la partecipazione dei cittadini, senza considerare adeguatamente le implicazioni in termini di processi interni, requisiti normativi, adeguatezza delle competenze etc.
Sono d’accordo con l’analisi fatta da Freschi, non con il correttivo proposto in chiusura (“Se i cittadini metteranno hackeristicamente «le mani sulla tecnologia» sarà più facile: altrimenti il rischio che questa diventi uno strumento ulteriore per eludere la domanda di partecipazione diffusa è davvero grande.”).
L’iniziativa (la partecipazione) nasce dal basso sempre in opposizione/per differenza con quanto arriva dall’alto: il conflitto, letto in questo modo, nasce sempre dal basso ed è ALTRO dalla strutturazione del consenso o dal sostegno alla coesione sociale. (La moda attuale, di un certo successo tra le amministrazioni di centro-sinistra, è confondere consenso e conflitto nella pretesa di regolare ciò che non è regolabile). Non può essere questo il correttivo ad una deriva “campionaria” delle iniziative di e-democracy che nascono dalle istituzioni locali. Ancorchè affini, i momenti del conflitto e del consenso non sono mutuabili nè sovrapponibili.
Credo che la risposta alle criticità poste dai progetti e-dem non stia nella qualità della partecipazione dei cittadini ma piuttosto nella capacità delle amministrazione di disegnare nuovi processi di funzionamento e strategie per il consenso e la partecipazione.
L’(e) democracy sognata « Chips & Salsa said
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