Chips & Salsa

articoli e appunti da franco carlini

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Archive for dicembre 2006

Time Magazine, tanti anni dopo

Posted by franco carlini su 17 dicembre, 2006

Tutti l’abbiamo letto, fin dai primi lanci stampa di sabato notte (Upi, ore 9.30 di Greenwich): un tutti noi, è stato proclamato persona dell’anno dal settimanale Time. A conferma che il web è veloce e la stampa lenta, sui giornali di carta il fatto è arrivato soltanto ieri. Sul manifesto, altrettanto inevitabilmente, solo questa mattina, il che consente, però, di leggerlo con qualche distacco.

La scelta di Time è un omaggio a tutti quelli che non solo leggono, guardano e ascoltano le pagine dell’internet, ma anche le alimentano con i loro pensieri, in forma di parole orali, immagini o suoni. Come accade per i Nobel, che premiano molti anni dopo un progresso fondamentale delle scienze, anche questo omaggio arriva in grande ritardo. Che qualcosa di importante stesse succedendo dal basso, grazie alle tecnologie di comunicazione digitale, era ben evidente, a qualsiasi giornalista di media curiosità almeno dal 1992. In quell’anno infatti si svolse a Rio il Summit della Terra (United Nations Conference on Environment and Development). Quell’evento, che avrebbe prodotto più tardi il protocollo di Kyoto e la Convenzione sulla diversità biologica, venne preparato dalle molte organizzazioni non governative con un’intensa elaborazione collettiva transnazionale, realizzata con posta elettronica e trasferimenti di file su e giù per il pianeta. Il web ancora non era nato come fenomeno di massa, ma c’era già molto del fenomeno che esso oggi rappresenta. Sociale e planetario, si badi bene, non tecnologico.

Contrariamente a quello che il settimanale americano scrive, parlando di una una seconda ondata, un Web 2.0, l’idea c’era già tutta anche nelle parole dell’inglese Tim Berners-Lee, ideatore del world wide web nei primi ‘90: «Avevo (e ho) un sogno, che il web potesse essere meno un canale televisivo e più un mare interattivo di conoscenza condivisa. Immagino un caldo e amichevole ambiente fatto delle cose che noi e i nostri amici abbiamo visto, sentito, creduto o immaginato. Mi piacerebbe che rendesse più vicini i nostri amici e colleghi, sì che lavorando insieme su questa conoscenza, possiamo ricavare una migliore comprensione».

Capita talora che anche le utopie si realizzino, il che tra l’altro dovrebbe smentire tutti i realisti riformisti (i Fassino, per dirne uno a caso) secondo cui «bisogna andarci piano, la gente non capirebbe, sarebbe bello ma non si può». E fare arrossire le Apple, le Ibm e le Microsoft che di fronte a quel sogno dissero: «dov’è il beef?», inteso come il business. Clamorosamente una cosa nata un po’ per caso (con fondi militari, ma non per fini militari – quante volte occorrerà smentire questa fasulla leggenda?) ha portato anche dollari, e tantissimi, a chi ci ha creduto e ha percorso creativamente quella strada e probabilmente questo fatto molto materiale ha spinto la direzione di Time a scegliere ruffianescamente tutti noi come protagonisti dell’anno 2006.

L’idea gli deve essere scattata nell’ottobre di quest’anno, quando Google, un’azienda web che vale 147 miliardi di dollari, ha acquistato YouTube per 1,65 miliardi, un servizio web per caricare e scaricare filmati che non aveva ancora fatto un centesimo di utili. «Allora questo web» è una cosa seria, si devono essere detti.

Per illustrare quel «siete voi» la rivista americana ha fatto comparire una successione penosa di fighetti, finti giovani alternativi, casalinghe al computer, ragazze con la pancia fuori e le cuffiette, un’idea di people da agenzia pubblicitaria anni ’70. Il che conferma quanto distante sia la percezione della stampa tradizionale dalla realtà delle cose. Che è fatta anche di cose orribili, che succedono nel web come nella vita, ma soprattutto è un terreno di conflitto assai acceso tra chi le tecnologie le vuole usare per prendersi la parola che non ha mai avuto e chi lo considera solo un modo per riproporre conoscenza-merce, ancorché vestita di bit (e di copyright).

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editoriale / Si sgretola il copyright

Posted by franco carlini su 14 dicembre, 2006

C’è movimento sul fronte del copyright ed è forte la sensazione è che quel sistema non sia più difendibile. Invece si va sgretolando passo passo, sotto l’azione congiunta di due forze. La prima è lo sviluppo impetuoso delle tecnologie digitali che rendono facile, poco costoso, immediato e globale: a) produrre contenuti (testi, suoni, immagini); b) distribuirli ai fruitori finali, saltando le intermediazioni, c) riprodurle in copie identiche all’originale; d) usare quei contenuti come semilavorati, a partire dai quali fare nuove creazioni, remixando, alterando, stravolgendo.
La seconda forza è sociale: «per colpa dell’internet», tra i giovani, ma anche tra i meno giovani un’idea si è fatta strada, fino a diventare un buon senso diffuso. L’idea dice che le idee devono circolare liberamente e che non sia poi un reato (o non sia un grave reato) violare i diritti di proprietà intellettuale. Questa convinzione diffusa è ben più pericolosa, per i detentori del copyright, di ogni micidiale innovazione tecnologica. A questa idea, giusta o sbagliata che sia, se ne associa un’altra, giusta o sbagliata che sia: che le corporation non siano più degli utili strumenti per diffondere musica e film, ma delle avide organizzazioni guidate solo dall’andamento delle loro azioni in borsa, e che abbiano rinunciato a ogni ruolo di promozione della lettura, della musica, del buon cinema. In sostanza che si considerino esenti da ogni responsabilità sociale.
L’ultima indagine in ordine di tempo si riferisce ai ragazzini inglesi di 13 anni: tre quarti di loro scambiano o vorrebbero scambiare musica da un cellulare all’altro, usando la connessione senza fili tipo BlueTooth, grazie alla quale i moderni cellulari si passano qualsiasi file.
La linea seguita dalle corporation finora è stata questa: cause legali esemplari, per frenare il fenomeno; campagne di informazione per ricordare che si tratta di un vero e proprio furto; lobbismo sui governi per legislazioni più severe; introduzione di sistemi tecnologici per impedire la riproduzione o la copia non autorizzate. Nessuna di queste mosse è stata risolutiva. Le prima tre perché una legge deve sempre corrispondere a un sentire comune della società e se non c’è tale corrispondenza, allora verrà violata in continuazione. Le tecnologie di blocco per parte loro hanno solo l’effetto di ridurre la circolazione delle merci digitali che si vuole proteggere.

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Cellulari aperti

Posted by franco carlini su 14 dicembre, 2006

Agostino Giustiniani

DIY, per gli anglosassoni che amano gli acronimi significa «Do It Yourself», fattelo da solo. E «DIY cell phone», fatti il tuo cellulare, è il programma di lavoro di un gruppo di giovani imprenditori e tecnofili americani. Dove: nella Silicon Valley naturalmente. Più precisamente la sessione di ieri, 13 dicembre, si è tenuta al TechShop di Menlo Park, una sorta di laboratorio aperto per hobbisti di tutti i tipi, dotato di frese, torni, saldatrici eccetera.

Il gruppo di è voluto chiamare Homebrew Mobile Phone Club, e per coloro che ricordano la storia recente dell’informatica, la citazione è evidente e ambiziosa dato che Homebrew Computer Club si chiamava, alla fine dei ’70, il gruppo di appassionati che discuteva di come farsi in casa un microcomputer, usando i microprocessori appena arrivati sul mercato. Due di loro ci riuscirono davvero e si chiamavano Steve Jobs e Stephen Wozniack, i due ragazzi che inventarono la Apple. Lo spirito era insieme fanatico per la tecnica e libertario per la politica e l’economia. Un computer per tutti, come grimaldello di una (forse ingenua) rivoluzione sociale era il pensiero corrente.

La storia oggi si ripete, anche se in termini diversi,. Perché la storia non si ripete mai davvero. Comunque l’oggetto dei desideri di libertà è il telefono cellulare, appunto. Una cosa davvero personale, che si vende a ritmi sconvolgenti in tutti i paesi del mondo, e soprattutto in quelli in via di sviluppo. I leader di mercato sono la svedese Nokia, l’americana Motorola, le sud coreane Samsung e LG. Sono loro, in proprio o in accordo con i grandi operatori telefonici come Vodafone, Verizon, T-Mobile, a progettare e realizzare i nuovi oggetti da tasca, decidendo quali funzioni inglobare e quale forma dargli. Una delle tendenze degli ultimi anni, per esempio, è stata di farli sempre più sottili; cominciò la Motorola con il suo Razor, inseguita ed emulata da Samsung. Un’altra linea di mercato è quella di farne delle fotocamere e dei lettori di musica Mp3. Una terza ancora, recente, vede la crescita degli Smart Phone, detti «furbi», appunto, perché contengono software e sistemi operativi assai arricchiti. Per esempio uno dei più recenti, il Treo 750v, offre sempre in formato tascabile, i principali programmi applicativi di Microsoft, come Word, Excel, Internet Explorer.

Ma allora che gusto c’è a farsi un cellulare da soli? Nella precedente sessione del Club uno dei suoi fondatori, Matt Hamrick, è arrivato con un prototipo del suo Tuxphone. Nulla a che fare con quegli oggetti colorati e gradevoli che si vedono nelle vetrine, piuttosto due blocchi di chips collegati con un po’ di fili volanti. Ma gli increduli spalancarono gli occhi. Come ha raccontato la rivista Wired, Matt chiese ai presenti: «qualcuno di voi ha una scheda Sim da prestarmi?» e poi «Qualcuno di voi mi dice il suo numero cellulare?». Detto fatto, la Sim inserita chiama il numero richiesto e il cellulare fatto in casa funziona. Il primo Tuxphone venne realizzato da Surj Patel nel gennaio scorso e presentato a una conferenza californiana sulla tecnologie emergenti. Un sito apposito, www.opencellphone.org, descrive gli sviluppi del progetto e permette di scaricare gli schemi costruttivi. Le singole parti possono essere acquistate online e il montaggio sarà a cura dei singoli. Il tutto viene gestito da un software che non è altro che il sistema operativo aperto Linux, il che spiega anche il nome: un Telefono linUX.

Resta la domanda: perché farlo, quando sono centinaia i modelli cellulari disponibili, praticamente per ogni gusto, esigenza e portafogli?. Una delle risposte possibili è la sfida a fare meglio, e secondo le proprie esigenze quanto il mercato non soddisfa fino in fondo. L’altra, insieme politica e tecnologica, è continuare la strada dei prodotti aperti, dimostrando che può finire la strada degli acquisti a scatola chiusa e che anche gli utilizzatori devono avere la possibilità di modificare le tecnologie, se ne hanno voglia e se ne sono capaci.

Può darsi che il Tuxphone non sia mai un successo, e certamente non di massa, ma conferma una tendenza ben netta: la cultura aperta, sia quella del software aperto, che quella degli accessi aperti alle conoscenze, continua a macinare e a influenzare positivamente il mondo, in tutti i settori. Si pensi al progetto OScar (www.theoscarproject.org), ovvero un’automobile (car) in Open Source. E’ un’idea del tedesco Markus Merz e il suo obbiettivo è di usare la filosofia aperta per progettare un’auto semplice, furba e funzionale. E poiché la forma è figlia della funzione, si tratta, più a monte di ripensare l’idea stessa di mobilità. Il manifesto iniziale era certamente troppo ottimista, ha scritto di recente la rivista Business Week: «Costruire un’auto senza un centro di ingegneria, senza soldi, senza frontiere, ma con l’aiuto della creatività della comunità Internet».  E tuttavia prosegue e va crescendo in fama e popolarità. Un’altra dimostrazione, forse, che lo stato della tecnologie attuali a molti appare insoddisfacente. 

 

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Orfani del Blackberry

Posted by franco carlini su 14 dicembre, 2006

Fra luoghi comuni, statistiche e ricerche, che fanno i figli ma anche cosa fanno i genitori
Noi e i nostri figli, schiavi – come si dice – delle tecnologie, tra cellulari e videogiochi, di cui diventano addicted, dipendenti in maniera quasi totale

Sarah Tobias
Dice il luogo comune, e confermano le statistiche, che i nostri figli sono oggi schiavi delle tecnologie, tra cellulari e videogiochi, di cui diventano addicted, dipendenti in maniera quasi totale. La ricerca più recente si chiama «2006 Teen Trends», tendenze dei giovani del 2006, ed è stata condotta da Harrison Group su un campione di mille americani tra i 13 e i 18 anni. Il risultato è al limite dell’incredibile: essi usano uno o più apparati elettronici come Internet, cellulari, televisione e videogame per un totale di 72 ore alla settimana, coem a dire più di 10 ora al giorno. Il totale è così alto, evidentemente, per effetto dei cellulari sempre accesi, che si sommano alle altre attività digitali. Un terzo di loro infatti possiede un iPod (ed erano solo l’un per cento tre anni fa) e più della metà possiede e una una PlayStation 2 della Sony.
Anche l’Xbox della Microsoft, comunque, raccoglie molti appassionati. Quanto alla musica, lo studio valuta che in media i giovani impieghino 2-3 ore al giorno per scaricare o per ascoltare brani digitali. E infine il fenomeno più recente: il 68 per cento ha creato un suo profilo personale su una delle reti sociali (social networks) come MySpace o Facebook. Infine questi teenager medi americani sono costantemente in contatto elettronico con gli amici: il giovane medio chatta attraverso Istant messaging per tre ore alla settimana, con 35 altri coetanei.
Ma c’è anche il fenomeno inverso, almeno in America: figli trascurati dai genitori, perché anche loro, gli adulti, sono sempre immersi nelle conversazioni elettroniche. Lo ha segnalato il Wall Street Journal, che di queste cose se ne intende, dato che i suoi lettori sono in larga misura uomini e donne del business, un mondo dove la velocità e la tempestività sono regola aurea.
Si prenda il caso di Holth e di Elsa, rispettivamente figli di 7 e 4 anni di Elizabeth Pecore, proprietaria di un emporio di dolci specializzati a Austin, Texas. «Sono molto annoiato, dichiara Hohlt – perché lei è sempre concentrate su quella cosa maledetta». La cosa in questione è un BlackBerry, oggetto tascabile con schermo e tastiera classica (Qwerty), che offre molte funzioni e nelle ultime versioni anche quelle di un normale telefono cellulare. Ma la virtù principale, almeno per i suoi cultori, è questa: non appena un messaggio di posta elettronica arriva alla casella del possessore, questo viene spinto (push) al BlackBerry, il quale ne segnala l’arrivo. Il tutto avviene grazie a un collegamento senza fili, appoggiato su una delle reti cellulari disponibili. In questo modo il fortunato» la può leggere immediatamente il messaggio e i suoi allegati e rispondere altrettanto rapidamente. Il meccanismo psicologico è analogo a quello che coglie molti al computer: avendo attivato la segnalazione istantanea dell’arrivo di un’e-mail, non resistono alla tentazione di guardare chi è, e interrompono quanto d’altro stavano facendo, anche se magari si tratta di spam o di messaggi che potevano aspettare. Ma con il BlackBerry sempre acceso e attivo,. Ciò avviene non solo alla scrivania, ma in ogni momento e luogo, purché ci sia una rete cellulare.
Ma torniamo in casa di Elizabeth Pecore: una volta, prosegue i quadretto familiare, la piccola Elsa nascose il BlackBerry, per impedire alla madre di essere disponibile sempre a quello piuttosto che a lei. Un’altra volta, tuttavia, vedendo la madre particolarmente affranta dopo il lavoro, la stessa Elsa prese l’apparato dalla di lei borsetta e glie lo portò: «Mommy, forse questo ti aiuterà a stare meglio?».
Altra scena, altra famiglia, altra donna d’affari. A lei i figli hanno imposto di non usare il BlackBerry dall’ora di cena al momento di andare a letto. Lei tuttavia ha confessato di non resistere e così fa dei frequenti salti in bagno, dove l’ha nascosto e dove lo consulta nervosamente. Per non dire di Christina Huffington, 17 anni, la figlia maggiore della famosissima Arianna Huffington, cofondatrice di uno dei blog politici più famosi in America, chiamato The Huffington Post, appunto. Arianna di BlackBerry ne ha due e li consulta in continuazione: se li tiene per terra, a portata di sguardo, durante le sedute di Yoga. La giovane Christina dice: «Ho la sensazione che lei non mi ascolti mai», anche lei comunque ce l’ha e allora lo utilizza spesso per comunicare con la madre, magari anche da una stanza all’altra.
Sembra una malattia incurabile, ed è persino più grave di quella collegata all’uso del cellulare, ma in tutti gli episodi citati a soffrirne sono per l’appunto i figli che, come nel caso della diciassettenne Christina, si sentono trascurati, e in effetti lo sono. In casi del genere chi ai figli tenga non ha altra scelta che spegnerlo e un gesto del genere ha due effetti positivi: toglie la tentazione di rispondere e soprattutto manda un importante messaggio non verbale ai figli (o comunque a coloro con cui si sta interagendo): adesso per me è importante stare con te in maniera esclusiva, perché tu sei più importante.

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Le basi di un «mondo digitale»

Posted by franco carlini su 14 dicembre, 2006


Il consorzio romano Gioventù Digitale, voluto dall’assessora Gramaglia al comune di Roma cinque anni fa, si è trasformato in fondazione e nel frattempo da «giovanile» si è fatto «mondo». Fondazione Mondo Digitale, appunto, con l’adesione di comune, provincia e regione, ma anche di diverse aziende tecnologiche, ultima tra queste la californiana Intel, quella dei microprocessori. Alla presidenza c’è sempre Tullio De Mauro, lo studioso attento alle trasformazioni dei linguaggi, di tutti i linguaggi. La direzione è di Mirta Michilli, da anni sulle frontiere dell’innovazione. Non che i ragazzi e le ragazze verranno d’ora in poi trascurati: il rapporto con le scuole resta al centro, anche visti gli entusiasmi e i successi raccolti negli anni scorsi. Ma i giovani sono affiancati dai meno giovani, e così prosegue ancora e si estende il progetto «Nonni su Internet». In questo caso il circuito si completa: aziende regalano i computer usati, studenti esperti li rimettono in sesto, e questi poi migrano (700 finora) verso centri per anziani o altre scuole, riciclando e riusando e, nel frattempo, dotandone molti di software Open Source. Gli stessi studenti saranno anche docenti per i meno giovani.
La solita lotta al Digital Divide? Sì, ma purché si intenda che il «fossato digitale» non riguarda solo le generazioni (ci sono studenti ignorantissimi che sanno giusto navigare un po’ per i siti delle squadre del cuore, e basta) e che non dipende solo dai costi delle attrezzature e delle connessioni: di fossati ce n’è molti e il più difficile da superare forse è quello culturale. L’idea di fondo, par di capire, è che queste tecnologie non sono specialistiche, né settoriali, e nemmeno solo «strumenti». Trasformano le parole e le immagini, modificano le relazioni tra le persone.
Dunque dominarle e farle proprie è fattore essenziale della politica di una metropoli. Se la regione Lazio vuole la banda larga per tutti, nuovo servizio universale, essa servirà davvero se ci passeranno bisogni e desideri, interazioni e magari persino quella partecipazione dal basso che la politica spesso trascura.

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copyright / Per gli inglesi bastano 50 anni

Posted by franco carlini su 14 dicembre, 2006

Il governo inglese ha chiesto a una commissione indipendente di valutare la legislazione sul diritto d’autore. Era guidata da Andrew Gowers, che viene dal mondo dell’editoria e più precisamente dal Financial Times. Ma le sue conclusioni hanno generato proteste da parte delle industrie della musica. E’ vero infatti che il rapporto propone un innalzamento delle pene per chi venda in rete materiali coperti da copyright; ed è altrettanto vero che valuta attorno al 20 per cento del loro fatturato il danno all’industria per effetto delle copie illegali, ma su altre questioni si cheiora dalla parte del pubblico. Intanto suggerisce che sia permesso, a chi abbia acquistato lecitamente dei materiali d’autore, come un film o una musica, trasferirli da un supporto all’altro; per esempio da un Dvd a un computer, da un Cd a un lettore di Mp3. Attualmente le barriere tecnologiche inserite da molti produttori lo rendono difficile o impossibile, mentre l’acquisto, dice Gowers, dovrebbe essere indipendente dal supporto di memorizzazione, quando si tratti di uso personale.
Il secondo suggerimento del rapporto è ancora più calamitoso per l’industria dell’intrattenimento. Viene respinta infatti la richiesta, avanzata da più parti, di estendere il copyright sulle musiche dai 50 anni attuali a 95, sempre a partire dalla morte dell’autore. Il principio è semplice: occorre trovare un equilibrio tra il giusto incentivo che la creatività deve avere e la disponibilità a tutti, dopo un certo periodo di tempo, dei beni intellettuali. Violenta e immediata la reazione dell’industria musicale: un’inserzione a pagamento sui giornali la critica e raccoglie 4 mila firme di artisti, tra i quali l’inossidabile John Lennon e gli U2. Compaiono anche le firme di Lonnie Donegan, morto nel 2002 e di Freddie Garrity, scomparso nel maggio scorso. Quando si dice che il business fa miracoli.

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Chips in cassa integrazione

Posted by franco carlini su 14 dicembre, 2006


Le pagine settimanali Chips and Salsa, curate da Franco Carlini, con un certo numero di collaboratori che vanno tutti ringraziati pubblicamente, va anch’essa in Cassa Integrazione, per effetto del «piano di crisi» e ristrutturazione deciso da questo giornale.
Riprenderà dunque, regolarmente, giovedì 11 gennaio. I materiali finora pubblicati e qualche altro testo continuano a essere disponibili sul blog http://www.chipsandsalsa.wordpress.com, che nel frattempo, si spera, potrà diventare anche migliore.
In particolare va segnalato che la barra sotto l’intestazione contiene due pagine di servizio. Alla voce «Giornalismi» si trovano molti materiali a proposito della crisi del giornalismo tradizionale, incalzato dalla cadute delle copie e dalla crescente diffusione della rete Internet. Un tema che verrà affrontato pubblicamente anche negli Stati Generali del manifesto convocati a Roma sabato prossimo.
Alla voce «Il piacere di scrivere» viene proposto invece un elenco di link utili e commentati, a cura di Patrizia Feletig, relativi ai siti che aiutano a lavorare meglio con le parole.
La colonna di sinistra indica le categorie in cui i vari articoli sono stati classificati, secondo una tassonomia empirica. Gli Archivi della colonna destra permettono di esplorare questo «magazzino» per date, dal gennaio 2005 a oggi. La maschera «Cerca» nella colonna destra aiuta a trovare singole stringhe di parole nell’archivio.
Chips and Salsa è da un decennio un piccolo marchio del manifesto. Debuttò infatti, come fascicoli a puntate nel 1996, dedicandosi a quella che oggi si chiamerebbe «alfabetizzazione digitale». Ma non è l’unico luogo di questo giornale dove questi temi vengono trattati: le pagine Cultura e Visioni vi dedicano da sempre un’attenzione continua, e lo stesso avviene nel resto del quotidiano. Anche questo conferma il carattere orizzontale, pervasivo e non specialistico delle tecnologie di rete. Che innervano ormai un numero strabiliante di aspetti e applicazioni determinanti la vita quotidiana (lavorativa e non) di tutti noi.

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Rete, una vita difficile

Posted by franco carlini su 14 dicembre, 2006

Il popolo della rete e il governo dell’Unione. L’era berlusconiana al potere ha cercato di soffocare la nascita di una cultura politica della rete. Ora come portare questi temi al centro dell’agenda del governo di centrosinistra?
Giulio De Petra
Il «popolo della rete» è quella moltitudine di associazioni, lavoratrici e lavoratori intellettuali, imprese che non solo producono per la rete, ma che, soprattutto, usano la rete per immaginare e sperimentare nuovi modelli di società e di produzione. Questo popolo negli ultimi anni ha avuto una vita difficile. In molti modi, infatti, la destra al governo ha cercato di soffocare la nascita di una cultura politica della rete, capace di opporre la rete alla televisione, il peer to peer al broadcast, la cooperazione produttiva alla rendita commerciale.
Eppure anche in questi anni, nella società e nella pubblica amministrazione, nella politica e nella produzione, nella ricerca e nella scuola, la rete e le sue articolazioni economiche e sociali sono state capaci di sopravvivere. Soprattutto a livello locale, dove realtà associative e amministratori intelligenti hanno saputo operare al riparo dallo sguardo miope della politica e del potere centrali, spesso capaci soltanto di inseguire l’innovazione solo dopo che si erano manifestati i suoi effetti, con politiche repressive tanto ottuse, quanto tardive e, spesso, inefficaci. Questo patrimonio di intelligenza e di sapere, di esperienza e di strumenti, non ha saputo solo sopravvivere agli anni del broadcast, ma si è irrobustito e articolato in una molteplicità di luoghi associativi che oggi si presentano come un soggetto politico capace di intervenire nella nuova stagione politica che si è aperta con il governo dell’Unione.
Il ruolo che le tecnologie digitali possono avere nel consentire un radicale, profondo ed esteso cambiamento nelle strutture portanti del nostro paese, il tema della produzione e della distribuzione della conoscenza nel «Secolo della rete» non sono però esplicitamente al centro della agenda politica del nuovo governo. Questi temi certamente compaiono, tenacemente e trasversalmente, in molti dei principali appuntamenti che la costituiscono e sono oggetto non secondario di molte delle diverse competenze in cui si articola la nuova struttura del governo.
Ma sul modo in cui questi temi vengono affrontati nella azione di governo, sulla possibilità di esprimere compiutamente ed efficacemente la loro valenza politica, ha inevitabile effetto la composita geografia politica che caratterizza la maggioranza di governo e, in particolare , le due grandi opzioni di riorganizzazione del campo del centro sinistra che oggi appaiono prevedibili: l’opzione riformista moderata e l’opzione riformista radicale.
Il modo in cui questi due punti di vista guardano alle implicazioni politiche delle tecnologie di rete è caratterizzato da un singolare paradosso: chi ne parla molto non sa usarle, chi potrebbe usarle politicamente non ne parla abbastanza. Senza alcun dubbio, infatti, il tema dell’innovazione viene valorizzato e riconosciuto come politicamente importante dal punto di vista del riformismo moderato. Esso compare nei programmi e negli organigrammi dei partiti che a questo punto di vista fanno riferimento e l’innovazione appare funzionale e necessaria, anche come simbologia politica, alla realizzazione dei progetti di riorganizzazione del lavoro e dell’economia. Questo punto di vista tuttavia, oltre a confondere talvolta l’innovazione con le fortune del settore industriale delle telecomunicazioni e dell’informatica, è viziato da una congenita inefficacia: considera infatti l’innovazione generata dalle tecnologie di rete con lo stesso paradigma proprio di altre tecnologie e la iscrive nel contesto degli sviluppi dei modelli economici e sociali del capitalismo attuale.
Viceversa, il punto di vista del riformismo radicale, che assume la radicalità della trasformazione economica e sociale come cifra della propria proposta politica, non riesce a scrollarsi di dosso una diffidenza antica verso le «rivoluzioni tecnologiche» da sempre interpretate come funzionali agli sviluppi del capitalismo, ai suoi nuovi modelli organizzativi. Tale diffidenza è rafforzata anche da alcuni fenomeni attuali, quale, ad esempio, il dato inconfutabile della diffusione del lavoro precario nei settori legati alla produzione e all’utilizzo delle nuove tecnologie. Questa diffidenza impedisce di cogliere che vi è un nesso diretto e inedito tra la possibilità di un cambiamento sociale radicale («vuoi vedere che l’Italia cambia davvero?») e le opportunità di nuova organizzazione sociale economica e produttiva rese possibili dalle tecnologie di rete. La recente nascita della associazione «netleft» nell’ambito della sinistra europea genera in proposito interessanti aspettative.
Retoriche inefficaci di modernità e diffidenze pregiudiziali andrebbero rovesciate nel riconoscimento di una doppia, reciproca opportunità: non vi è innovazione efficace abilitata dalle tecnologie di rete se non nel contesto di un radicale cambio di paradigma nell’organizzazione produttiva e sociale; non vi è possibilità di un cambiamento radicale dell’organizzazione economica e sociale senza un uso pervasivo e politicamente consapevole delle tecnologie di rete. Considerare la conoscenza un bene comune può dimostrare la fondatezza di questa doppia affermazione e descrivere, nello stesso tempo, il terreno di iniziativa politica del popolo della rete. Il riconoscimento politico dei beni comuni e la necessità di promuovere azioni che ne salvaguardino l’esistenza e la fruizione è parte significativa del programma dell’Unione. I beni comuni sono risorse che la politica decide di sottrarre al mercato per la loro caratteristica di essere risorse che garantiscono o promuovono diritti fondamentali. Sono realizzazioni parziali, anticipazioni di una nuova organizzazione dell’economia e della società basata su regole diverse da quelle dell’economia mercantile. Se consideriamo la conoscenza, ed in particolare la conoscenza prodotta e distribuita mediante le tecnologie di rete, come bene comune, questa diversità assume caratteristiche nuove e diverse dalle caratteristiche delle altre risorse che consideriamo beni comuni.
La conoscenza così prodotta e distribuita, infatti, non deve essere sottratta al mercato perché la base materiale della sua produzione, che prevede costi trascurabili di riproduzione e di accesso, è già naturalmente fuori dalle leggi del mercato. La pretesa di utilizzare le leggi del mercato per produrre e distribuire conoscenza mediante le tecnologie di rete è irrealistica e determina quella che siamo abituati a chiamare la «scarsità artificiale» che impoverisce e deforma la sua «ricchezza naturale».
A questa pretesa irrealistica, che è poi la causa ultima della inefficacia delle politiche di innovazione finora immaginate, si contrappone il realismo di chi già oggi nel lavoro, nelle relazioni sociali, nella cooperazione produttiva, nell’accesso, nella riproduzione e nella distribuzione della conoscenza sperimenta modelli non mercantili e spesso non ancora previsti, se non osteggiati, dalle leggi vigenti.
Trasferire queste considerazioni sul piano della iniziativa politica deve però fare i conti con un’altra conseguenza delle trasformazioni prodotte dalle tecnologie di rete, e cioè la crisi della politica, dei suoi strumenti, delle sue procedure. La rete infatti cambia i meccanismi di rappresentanza, modifica la morfologia della politica, opera trasformazioni tanto più profonde, quanto ancora poco indagate, anche da chi è capace di leggere in profondità le trasformazioni prodotte invece in altri settori come quelli del lavoro, della distribuzione, della comunicazione.
La legge elettorale utilizzata nelle elezioni di aprile (pensiamo ai meccanismi di composizione delle liste) ha al contrario assecondato le profonde pulsioni conservatrici e autoreferenziali degli apparati di governo dei partiti, confermate dai comportamenti politici che ne sono seguiti in apertura di legislatura. Esito paradossale quello del movimento politico di Berlusconi, interpretato da molti, al suo nascere, come il segno della necessità di aggiornare il rapporto tra meccanismi di rappresentanza e geografia sociale e finito, al suo epilogo, come restaurazione piena del potere dei politici di professione.
Mentre la rete abilita nuovi processi di organizzazione delle identità politiche e del rapporto tra complessità sociale e articolazione della rappresentanza, crea ricchezza e varietà negli strumenti della politica, promuove, anche in questo campo, forme inedite di cooperazione orizzontale, i partiti operano, rispetto a questa ricchezza lo stesso impoverimento che il copyright opera nei confronti della conoscenza: i partiti sono oggi il copyright della politica. Contro questa povertà della politica il popolo della rete può operare due volte: come strumento abilitante per le nuove forme di partecipazione sociale che si organizzeranno a livello locale sui tanti complessi problemi della agenda di governo, e come soggetto politico che, forte di questi strumenti, promuove, produce e distribuisce la conoscenza come bene comune. Per provare a farlo, però, dovrà superare i suoi limiti attuali.
(L’articolo è tratto dal volume collettivo “L’innovazione necessaria”, volume disponibile integralmente sulla rete all’indirizzo: http://www.ilsecolodellarete.it)

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Giù dalla torre d’avorio

Posted by franco carlini su 7 dicembre, 2006

editoriale

Mai come di questi tempi  scienza  e tecnologia sono sui media e nei pubblici convegni. Per non dire della magica parola «ricerca» che all’improvviso, e in maniera assolutamente generica, sembra tornata a essere, ma solo nel vuoto ciarlare dei politici, rimedio alla crescita economica che non viene. Tanta generica popolarità si accompagna peraltro a un diffuso sentire fatto di magiche aspettative e insieme di diffidenza, per superare le quali – molti pensano –  servirebbe «soltanto» un po’ di sana e corretta divulgazione.

Non stanno così le cose e a ricordarcelo è un fisico teorico importante, Marcello Cini, che molti lettori del manifesto conoscono per lunga frequentazione, fin dai tempi del debutto come rivista e passando poi per il quotidiano che state leggendo.

Il Supermarket di Prometeo. La scienza nell’era dell’economia della conoscenza (Codice
Edizioni, 29 euro) è il luogo colloquiale, il seminario in tre parti e otto capitoli, dove Cini ci invita a entrare con la dovuta voglia di rileggere, di ristudiare e di rifarsi molte domande colpevolmente accantonate, le quali non riguardano solo la scienza e la tecnologia, ma anche il capitalismo più recente, il fallimento teorico di alcune idee di Marx e il senso della sinistra oggi. E il legame profondo tra tutte queste cose.

A molti questo libro non piacerà. Ad alcuni ricercatori perché mette in dubbio certi fondamenti teorici e metodologici delle loro discipline: sono quelli che per contrapporsi giustamente all’antiscientismo troppo dilagante, della scienza così com’è oggi finiscono difendono tutto o quasi, richiudendo la torre e rivendicando una separatezza che era invece felicemente stata intaccata dai movimenti sociali. Ad altri, a sinistra, apparirà forse post moderno e cioè privo di una teoria politica generale ed eventualmente rivoluzionaria. E certamente non incontrerà l’interesse dei politici moderati perché troppo drastico nei giudizi sullo stato del mondo. Ma questi sono esattamente i suoi pregi e i buoni motivi per leggerlo. E del resto, che cosa deve fare un giovane fisico (l’età in questi casi non conta) se non continuare a minare con pazienza e curiosità le fondamenta di un discorso solo apparentemente solido? E cosa deve fare un comunista se non interrogarsi sullo stato di cose presenti e sulla possibilità di cambiarlo, con il pensiero e con l’azione? Questo giornale venne immaginato proprio per questo.

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La scienza parla alla politica

Posted by franco carlini su 7 dicembre, 2006

Marcello Cini torna a intrecciare scienza e società. I mutamenti concettuali della prima possono  dire molto alla politica e alla sinistra, nell’epoca del capitalismo della conoscenza, supermarket delle idee mercificate e omogeneizzate

Era il 26 giugno 2000 e due capi di stato, Bill Clinton e Tony Blair, annunciarono solennemente al mondo che il progetto genoma umano era concluso. Non era proprio così, dato che la pubblicazione dei risultati sarebbe avvenuta solo nel febbraio successivo, ma pazienza. Quel grande progetto scientifico, peraltro, è un’ottima illustrazione di molte delle idee che Marcello Cini sviluppa nel suo libro, al quale questa intera pagina è dedicata. Vediamo.

(1) La festa pubblica dei due presidenti ci ricorda che scienza e politica si intrecciano assai, specialmente quando diventano tecnoscienza: quel giorno si celebrava certamente una conquista del sapere di enorme importanza, ma soprattutto la leadership acquisita in un campo molto promettente quanto ad affari futuri. Di per sé sequenziare il genoma vuol dire «soltanto» aver messe in fila le «lettere» del Dna, per un totale di 30 mila geni circa, e questa è informazione allo stato puro, decisiva non solo per la conoscenza di noi stessi, quanto per l’«economia della conoscenza». A questa trasformazione accelerata dell’informazione in merce Cini dedica pagine nette: il nuovo capitalismo ha come obbiettivo di fare merce di ogni informazione e sapere, persino i sentimenti e le relazioni tra le persone. Questa è una svolta epocale, alla quale la sinistra non ha finora risposto in maniera adeguata. L’obbiettivo invece, oggi come ai tempi di Marx, dovrebbe essere quello di demercificare il mondo. Tanto più che la «merce» conoscenza ha due caratteristiche che la fanno diversa dai beni fisici: la sua fruizione non va a scapito della fruizione da parte di altri ed essa può crescere solo se circola il più liberamente possibile.

 

(2) Quello show Clinton-Blair dell’anno duemila ci ricorda poi un’altra svolta già avvenuta, ossia il passaggio del primato scientifico dalla fisica alla biologia. La prima fu scienza regina del secolo scorso, anzi la Scienza per eccellenza, della quale tutte le altre erano debitrici. La seconda è molto cambiata, dato che si è fatta quantitativa, più che descrittiva, si è fatta genetica, grazie alle conoscenze del Dna, e soprattutto, evoluzionistica. Su questo terreno Cini è giustamente assai severo contro le interpretazioni iper darwiniane, che di questi tempi non mancano, e semmai vanno crescendo, persino in banalità. Rivalutando il principe e anarchico russo Peter Alexeyevich Kropotkin, egli ci ricorda che non c’è solo la competizione degli individui  per le risorse scarse (nel qual caso vince il più adatto), ma c’è anche  la lotta degli umani con la natura, la quale, per essere vinta, richiede cooperazione e altruismo, for profit ma anche non profit. Le ricerche sulle radici evolutive della cooperazione umana si sono da tempo arricchite di contributi significativi.

 

(3) E ancora:  il progetto genoma apparve inizialmente, ai suoi cantori ingenui o interessati, come il trionfo di un’idea semplificata e riduttiva della scienza: il Dna sarebbe come un programma di computer, dove ogni gene, ben precisato dalla sequenza delle sue basi non fa che contenere la istruzioni con cui fabbricare le proteine, mattoni del corpo umano: «un gene, una proteina», così recitava l’ingenuo modello. Bene. Quel punto di vista così limpido, «elegante» e riduzionista oggi infine vacilla, e proprio per effetto del genoma sequenziato. Cosa significhi e dove sia la ridondanza dei geni, quali si accendono e si spengono (vengono attivati) in diverse persone e in diversi momenti della vita di un organismo; quali siano i percorsi che dalle «istruzioni» portano all’effettiva produzione di una proteina, è campo di ricerca appena aperto ed entusiasmante, dove però fin da ora risulta chiaro che se all’inizio è bene semplificare e tagliare le ipotesi con l’accetta, poi occorre comunque confrontarsi con l’enorme complessità della vita e della materia.

 

(4) Qui entra in gioco un’altra novità recente (degli ultimi 25 anni), le scienze della complessità,  appunto, che portano Cini a mettere in guardia dall’attribuire un carattere troppo sicuramente predittivo alla scienza. Come fisico ebbe il privilegio di vivere gli anni d’oro della meccanica quantistica, dove l’indeterminazione è la regola piuttosto che un errore. Sul finire della carriera egli come tutti incontrò le matematiche non lineari e i sistemi caotici, per non dire della «teoria delle catastrofi» che a un certo punto sembrò la risposta universale a ogni problema complicato. Il sogno che fu di Laplace di poter predire ogni fenomeno con esattezza, una volta che si conoscano per bene lo stato iniziale e la legge che lo governa, è andato in frantumi da 43 anni, grazie al meteorologo Edward Lorenz, quello dell’«effetto farfalla». E il guaio è che non si tratta di limiti della teoria o del calcolo,  prima o poi superabili, ma di una impredicibilità connaturata a certi fenomeni. Il mondo non è in preda al caos, ma il caso non solo esiste, ed è un fattore decisivo nella storia della vita. La qual cosa ad alcuni appare blasfema, ma a Cini e a molti di noi, meravigliosa, a wonderful life.

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