Tony Blair, la politica e la stampa. La sua riflessione è aggiornata, il tono combattivo, gli aggettivi pesanti. Ormai in uscita dal ruolo di primo ministro, egli si va trasformando in pensatore e opinion maker.
Un lungo articolo di bilancio della sua esperienze è stato pubblicato dal settimanale The Economist il 31 maggio. Nei giorni scorsi, poi, il 12 giugno, ha tenuto una conversazione pubblica al Reuters Institute for the Study of Journalism, che ha avuto molto eco.
Il testo è disponibile in rete, dove si trovano anche la registrazione video e i primi commenti.Il discorso è stato ripreso (parzialmente e con qualche arbitrario riassunto) dalla La Repubblica del 13 giugno.
Il tema dell’ intervento era il rapporto, faticoso e conflittuale, tra la politica e i media. Questione di attualità anche in Italia, a proposito di dossier e intercettazioni pubblicate. Su questo tema Blair procede assai polemicamente, ma pone anche dei problemi veri.
Vediamo lo svolgimento del discorso (in corsivo i nostri commenti)
Esso inizia con un doveroso ma rituale omaggio alla libertà di informazione: «a free media is a vital part of a free society». Aggiungendo tuttavia che della libertà fa parte anche al critica ai media, che egli intende sviluppare, senza peli sulla lingua, per così dire.
Qui si inserisce la prima mossa retorica: l’esibizione di modestia. Con un tono retrospettivo di sincerità e autocritica, Blair riconosce che nei primi tempi del suo potere (13 anni) cercò di avere con i media un rapporto complice, in sostanza cercando di persuadere e convincere. Un po’ di spin-doctoring, insomma.
Aggiunge che il rapporto tra i due poteri è stato sempre stato difficile, ma che oggi è peggiorato e questo è un problema. Peggiorato perché è cambiato il contesto dei media.
Qui l’analisi è ragionevole: i media sono più frammentati, perdono pubblico, l’informazione oramai avviene 7 giorni su 7, 24 ore su 24, le persone si alimentano dell’internet e dai blog.
Perciò i media (egli pensa soprattutto a quelli tradizionali) si trovano a seguire come unico criterio quello del massimo impatto, in un mercato che per loro si va restringendo.
Adesso si inserisce la frase ad effetto, quella destinata ad alimentare i titoli dei giornali, fatto del quale Blair (o chi gli ha scritto il discorso) è certamente consapevole; si tratta di un effetto voluto:
La paura di perdere qualcosa di importante, fa sì che oggi i media vadano cacciando in branco. «In tali circostanze sono come una belva selvaggia, che fa a pezzi le persone e la loro reputazione».
Da qui gli scandalismi, il pregiudizio negativo che vede nell’azione dei politici sempre qualcosa di oscuro e di riprovevole, nonché il peso eccessivo dato ai commenti e alle opinioni, le quali diventano “fatti” anche quando sono solo battute. Ma “fatti” che i politici non possono trascurare e che sono obbligati a inseguire smentendo e correggendo. Una rincorsa continua, un processo continuo e ansiogeno di perenne “crisis management”.
L’unico esempio citato esplicitamente è il quotidiano The Independent, che sarebbe sempre più un viewspaper (cioè portatore di punti di vista), anziché un newspaper, portatore di notizie. La polemica con l’ Independent e la citazione delle sue corrispondenze dal Medio Oriente sembra indicare che Blair abbia trovato particolarmente fuori posto i servizi del famoso (e non allineato) giornalista Robert Fisk.
A questo punto Blair, si dedica a un altro esercizio di retorica: «sto per dirvi qualcosa che pochi osano dire pubblicamente, ma che molti sanno essere assolutamente vero: oggi un importante aspetto del nostro lavoro (..) consiste nel far fronte ai media, al loro peso e alla loro continua iperattività. Talora ciò è letteralmente opprimente».
Non c’è da dubitarne, ma all’analisi manca un tassello e precisamente questo: in realtà i media tradizionali e i politici giocano esattamente la stessa partita e fanno parte della stessa casta. Quello che i giornali pubblicano in parte è destinato al grande pubblico (che si tratti di Kate Moss con la polvere bianca o dei reali d’Inghilterra), ma una parte rilevante viene giocata in complicità con i poteri e per fini di potere. Le dichiarazioni che i politici si affanno a diramare, e altri a smentire, dovrebbero legittimamente essere considertai dei fattoidi, e invece vengono promosse a rango di fatti.
Nella parte finale Blair confessa di avere creduto e sperato che i nuovi media potessero servire da correttivo ai difetti dei grandi giornali e network televisivi. Ma ora è giunto alla conclusione che «in realtà le nuove forme possano essere anche più pericolose, meno bilanciate, più interessate all’ultima teoria del complotto, moltiplicata per cinque».
La conclusione è all’insegna della speranza: che questo gioco perverso si fermi, perché fa male a tutti e perché si sente un bisogno di fatti separati dalle opinioni e di maggiore serietà e imparzialità. Dovevo dirvelo e ve l’ho detto, anche se molti butteranno nel cestino queste mie parole.
In sostanza, letto e riletto l’ultimo Blair, si possono trarre queste seguenti provvisorie conclusioni:
1. Non c’è alcuna seria riflessione da parte del politico nel modo con cui corteggia i (o con loro confligge) . Essi sono da un lato sopravvalutati e dall’altro guardati con pregiudizio negativo: anziché apprezzarne il ruolo di watchdog, li considera pregiudizialmente nemici e se ne sente perseguitato – il che per uno che ha avuto e forse contrattato l’appoggio dei media di Rupert Murdoch è quantomeno curioso.
2. La riproposizione dei fatti separati dai commenti non è mai stata vera, essendo pura ideologia: anche i fatti, per come sono scelti e impaginati, sono sempre dei punti di vista soggettivi di giornalisti e direttori. Lo insegnano persino al liceo.
3. Tutto l’approccio di Blair è all’insegna dell’antico. Egli vede i media, vecchi e nuovi, come canali di una comunicazione dall’alto in basso. Glie lo ha dovuto ricordare un anziano signore come Tim Gardam, presidente del comitato direttivo del Reuters Institute Steering, già alla Bbc e a Channel 4: «L’internet ha distrutto queste vecchie certezze. La sua traiettoria della comunicazione non è verticale ma orizzontale – reti di conversazioni che trovano il loro percorso attraverso un argomentare non strettamente determinato e dove ognuno può partecipare e avere parola. Questo è un paradigma differente, dove l’efficacia della politica non dipende dal potere del messaggio o dal carisma dì chi lo emette ma da come si gestisce la conversazione che da esso fluisce».