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articoli e appunti da franco carlini

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Archive for the ‘giornalismo’ Category

Giornalista soltanto io

Posted by franco carlini su 24 agosto, 2007

editoriale

 

F. C.

Questo non è giornalismo. Lo sostiene un editoriale del Los Angeles Times, in polemica con l’ultima iniziativa di Google. Il popolare motore di ricerca ha annunciato che presto tutte le notizie che compaiono su Google News (http://news.google.com) saranno commentabili dai lettori. Oggi questa forma di aggregazione di news crea una sorta di giornale automatico, pescando i titoli e i relativi link da migliaia di fonti online. Ma presto chi legge potrà dire la sua, in questo modo arricchendo dal basso questa specie di «testata» anomala. Google News è solo indirettamente una forma di giornalismo, dato che a monte ci sono dei giornali veri, di carta o di rete, non importa, e dei giornalisti veri. Ma l’impacchettamento è automatico, realizzato da qualche segreto algoritmo, che genera un prodotto un po’ strano, di solito persino troppo ovvio e senz’anima. Ma non è questa la critica avanzata dal giornale di Los Angeles; l’editoriale sostiene che aprire la strada alle osservazioni dei lettori, singoli o organizzati, significa implicitamente ammettere che le notizie fornite sono incomplete e non adeguate (anche se derivano da migliaia di fonti, le più diverse), mentre il «buon giornalismo» consiste invece nel saper porre le domande giuste invece che limitarsi ad aggregare le news altrui, pur se aprendo il forum a qualsivoglia commento. Per questa strada, suggerisce il quotidiano, si rischia di avere molti commenti fuori tema, spazzatura, divagazioni, come del resto succede in moltissimi luoghi della rete aperti al pubblico. Il rischio c’è, e chiunque frequenti i forum dei grandi quotidiani italiani, avrà notato che essi spesso rigurgitano di espressioni del pensiero fazioso, dove la passione partigiana spinge più a schierarsi (e a insultare i nemici) che ad argomentare. È senza dubbio un limite costitutivo di questa forma di partecipazione, che peraltro può essere limitato da una gestione redazionale insieme attenta e propositiva: il ruolo dei moderatori intelligenti dei forum non sta tanto nel censurare, quanto nel coordinare, variamente interloquire senza prevaricare. Perché allora tanto nervosismo?

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Non è tutto sociale quello che web

Posted by franco carlini su 24 agosto, 2007

 

In «Republic. com 2.0», Cass Sunstein (università di Chicago) analizza, preoccupato, gli sviluppi dei blog e dei social network Una analisi di quel che, grazie a Internet, sembra essere un «mercato perfetto» dell’informazione e dell’intrattenimento

Franco Carlini

I social network rischiano di relegare i partecipanti delle singole community e di isolarli dagli stimoli di realtà diverse. Il paradosso del web sociale è la sua mancanza di pluralismo e di contraddittorio. L’ultimo saggio di Cass Sustein – Republic.com 2.0 – ne illustra le dinamiche.
All’apparenza, grazie all’internet, quello dell’informazione e dell’intrattenimento è finalmente un «mercato perfetto», sia sul fronte della produzione che su quello della distribuzione. Chiunque infatti può produrne a bassissimo costo, senza ricorrere ad agenzie di intermediazione, e se è bravo avrà successo; viceversa la rete globale permette a ognuno di trovare tutto quanto gli piace e solo quello, dalle migliori musiche del Burkina Faso alle ricette di cucina a base di fragole. C’è spazio per tutti, grazie al fenomeno della «Long Tail» (ben descritto nel saggio La Coda Lunga di Chris Anderson, Codice edizioni). Vale per musica, romanzi, film, così come per le notizie, anche per effetto del crescere impetuoso del giornalismo iperlocale, grazie al quale chiunque può sapere come sono andate le feste di fine anno scolastico nella più piccola delle contee americane. Eccetera, eccetera, in abbondanza e sovrabbondanza.
Ma è davvero tutto così bello e meraviglioso? Non c’è alcun problema? I problemi ci sono, e non sono pochi. Molti intellettuali tradizionali, ultimo Giorgio Bocca sull’Espresso, lamentano l’eccesso di informazione: già il fatto che sia troppa è un bel guaio, cui si aggiunge che spesso è poco affidabile, diventando solo noise, rumore.
Ha scritto Bocca sul numero del 2 agosto: «Dietro la moltiplicazione, l’invasione, l’infatuazione delle macchine non si vede una crescita delle conoscenza, una maggiore pienezza di vita, ma un soffocamento della fantasia, un nozionismo invadente. L’uso generalizzato di un archivio colossale come internet che vantaggi dà se non il moltiplicare notizie e conoscenze vecchie e mal digerite?». Questa è un’obiezione classica, che è sempre stata avanzata in occasione di ogni salto delle tecnologie della comunicazione, fin dai tempi della stampa a caratteri mobili di Gutenberg. Ogni volta scatta l’angoscia, ogni volta si percepisce che lo scibile umano non è più riconducibile a pochi testi o enciclopedie e che occorre imparare a gestire l’abbondanza delle idee con nuovi strumenti, pratici e concettuali (tale è il tema di un recente saggio di Alex Wright, Glut: Mastering Information Through the Ages che ripercorre il tema dell’information overload attraverso i secoli e il sogno di un sapere universale).
A questo problema la rete offre oggi molte soluzioni, sia tecniche che sociali, e sono tutte all’insegna dei filtri. Filtri non per censurare, ma per scegliere. Sono tali i motori di ricerca, che offrono un sottoinsieme delle pagine web in risposta alla query (domanda) fatta dall’utente attraverso delle parole chiave. Ma non sono gli unici utensili: il sistema degli Rss Feed permette al lettore di selezionare le fonti cui abbeverarsi quotidianamente, per esempio, dall’Economist, tipico settimanale generalista, solo le notizie di Scienza e Arte, e da Endgadget solo quelle sui cellulari, e via selezionando.
Ci sarà anche chi fa ricorso a uno dei diversi siti che aggregano in proprio le notizie, pescando da migliaia di fonti, e le suddividono per categorie: tipico Google news, ma anche Individual.com oppure Reddit.com. Infine ci sono le versioni più o meno spinte di giornale personalizzato, che fu un sogno-proposta di Nicholas Negroponte, il cosiddetto MyJournal. E’ una possibilità che diversi siti e testate offrono da tempo, anche il prestigioso Wall Street Journal: ogni lettore compone una sua prima pagina individuale, che mette in evidenza gli argomenti che gli interessano e solo quelli; ogni copia del giornale online è dunque diversa da quella di ogni altro lettore.
Non è meraviglioso? Non è il trionfo dell’estrema libertà e personalizzazione dei consumi? La tendenza percorre tutti i media, non solo quelli internet; palinsesti personalizzabili offrono le tv, magari attraverso apparecchi dedicati alla bisogna, come Tivo (un videoregistratore su hard disk, dove prenotare gli spettacoli e i canali da registrare).
Ma qui nasce un nuovo problema, che uno studioso americano, Cass Sunstein dell’università di Chicago, ha già affrontato nel 2001 con il suo libro Republic.com e che ora ripropone, in versione aggiornata agli ultimi sviluppi dei blog e dei social network. Il titolo, persino un po’ troppo ovvio è Republic.com 2.0. La sua preoccupazione, del tutto condivisibile, è questa: una tale perfetta possibilità da parte di ognuno di selezionare quanto gli interessa e di escludere tutto il resto genera una pericolosa frammentazione della sfera pubblica che a sua volta si riflette negativamente sull’idea stessa di democrazia e di libertà di espressione. Il Daily Me o il My Journal, rinchiudono ognuno nel guscio dei suoi interessi attuali, senza esporlo mai ad altre informazioni e ad altri punti di vista. Così avviene spesso anche per i forum, i blog, le comunità: frequentare solo i luoghi dove si sa a priori che la pensano come noi può essere tranquillizzante e gratificante. Allineare il proprio sito a quelli simili è utile e fa comunità. Ma può anche accecare e limitare.
Al contrario, sostiene Sunstein, un ben congegnato sistema della libertà di espressione dovrebbe rispondere a due requisiti. Primo: «Le persone devono essere esposte a materiali (notizie e punti di vista, ndr) che non hanno scelto in anticipo. Degli incontri non pianificati, non anticipati, sono un elemento essenziale della democrazia». È la differenza che corre tra il frequentare un club chiuso (di tifosi di una squadra, di appassionati di arte digitale, di cultori di una sottocorrente del buddismo) e invece circolare per le piazze e negli angoli di strada, dove si incrocia, e magari si dialoga con altra umanità. È la differenza tra coltivare l’identità in maniera esasperata e lasciarsi coinvolgere dalla diversità. Questo atteggiamento, da strada e piazza pubblica, è un potente antidoto a razzismi, settarismi ed estremismi.
Secondo: è utile e opportuno che «molti cittadini condividano delle esperienze. Senza esperienze condivise una società eterogenea avrà una difficoltà molto maggiore nell’affrontare i problemi sociali. Le persone possono trovare difficile capirsi gli uni con gli altri». Questo aspetto di piattaforma comune di informazioni è stata la grande caratteristica virtuosa della stampa quotidiana generalista: offre a ogni comunità, a diverse scale di grandezza, dal comune alla nazione, un contesto a partire dal quale stare assieme, ma anche se del caso discutere e litigare civilmente. È una condizione essenziale della democrazia. E non si tratta solo dei grandi fatti della politica: anche la cronaca nera e bianca, i nati e i morti, sono il tessuto comune che i quotidiani tradizionalmente offrono. È una funzione di collante (glue) sociale. In questo essi sono favoriti dalla loro struttura fisica, che obbliga a sfogliare: per arrivare alle pagine dell’amato sport uno è costretto a muovere i fogli e lo sguardo magari gli cadrà sul Darfur o sul riscaldamento globale: viene «esposto», appunto ad altri temi e problemi, e va a vedere che non si soffermi.
Se questi due elementi – l’esposizione e la condivisione di esperienze – vengono a mancare perché ogni individuo si costruisce il proprio media personale, le sue «camere ad eco» che appunto echeggiano le sue preferenze e i suoi punti di vista predeterminati, allora sono guai.
Il rischio segnalato da Sunstein è reale e già presente nelle nostre società, anche indipendentemente dalle tecnologie digitali, e non basta esorcizzarlo sostenendo che tanta informazione, anche se frammentata, è comunque un progresso. Ciò è vero, è sempre vero, ma non basta. Questi sono tempi di informazione sovrabbondante e dove, contemporaneamente, l’attenzione è la risorsa scarsa. Per questo «il filtraggio è un fenomeno inevitabile, un fatto della vita». Ma altrettanto utile è continuare ad alimentare e a valorizzare i luoghi della diversità e del libero confronto. Anzi proporsi esplicitamente di costruirli.

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L’ora degli aggregatori

Posted by franco carlini su 24 agosto, 2007

Addio stampa locale, è l’ora degli «aggregatori» (ma le radio resistono)

Uno studio di Harvard University esplora la popolarità delle fonti di news online

Valentina Tubino

Un report della Harvard University ha preso in esame i visitatori di 160 siti americani di informazione tra quotidiani, network televisivi e radio: i giornali locali perdono visitatori rispetto alle testate più importanti, mentre resistono le piccole radio e spopolano gli aggregatori.
Lo studio, intitolato «Creative Destruction: An Exploratory Look at News on the Internet» esplora la popolarità delle fonti di news online, con uno sguardo particolare all’andamento dei giornali web locali, è stato realizzato avanti dal Centro Joan Shorenstein rivolto alla stampa, alla politica e agli affari pubblici e finanziato dalla Carnegie Corporation di New York. Sono stati presi in esame 160 siti di news nell’arco di un anno. I risultati sembrano evidenziare che, negli Usa per lo meno, gli utenti web in cerca di notizie stanno cambiando rotta: sempre maggiore è l’afflusso alle grandi sorgenti di informazione mentre vengono lentamente trascurate le testate locali. Secondo il Professor Thomas Patterson, del Centro Shorenstein, «con l’aumento dell’uso di internet come fonte di informazione, l’audience dei vecchi media è diminuita proporzionalmente». Vanno bene i siti dei quotidiani più popolari e venduti a livello nazionale, come New York Times, Washington Post e USA Today, con un incremento medio di visite del 10 per cento rispetto all’anno precedente. Perdono lettori invece i giornali locali, sia testate di città grandi, sia di città medie o piccole.
Ancora maggiore è il successo dei siti web di colossi televisivi come Cnn, Abc, Cbs, Nbc, Msnbc e Fox, che in 12 mesi hanno richiamato un buon 30 per cento in più di visitatori. Ma in questo caso le piccole radio e tv locali tengono testa, incrementando le utenze, anche se a un ritmo ovviamente più contenuto.
La sorpresa più grande però è il boom delle fonti non tradizionali, degli aggregatori e dei blog, vera novità dell’informazione online. I siti che pubblicano news tratte, adattate, interpretate o semplicemente linkate da altre fonti online hanno ottenuto, nell’ultimo anno, un ampio favore di pubblico. I nomi che più di tutti minacciano il dominio delle grandi testate giornalistiche americane sono Google, Yahoo, Aol e Msn, ma anche siti che usano software per monitorare e pubblicare in modo semi-automatico le notizie come Newsvine, Topix, Digg e Reddit. Per esempio, negli ultimi dodici mesi, gli utenti unici mensili di Digg, sono cresciuti da 2 milioni a oltre 15 milioni. Inoltre, gli aggregatori di informazione registrano in media circa 100 milioni di visitatori mensili, contro i 7,4 milioni dei principali network televisivi americani. Secondo Nancy Palmer, direttore esecutivo del Shorenstein Center, «il declino degli utenti di testate e televisioni locali corrisponde a una perdita potenziale di informazione».

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Business dei blog, giornalismo dal basso

Posted by franco carlini su 24 agosto, 2007

 

Blogosfera L’incontro fatale tra blog e affari. Sulla scia degli oltre 70 milioni di diari in rete nel mondo

Sarah Tobias

Prima o poi doveva succedere: poiché il mondo dei blog attrae sempre di più l’interesse del business, ecco il primo evento, americano e mondiale al tempo stesso, dedicato alla blogosfera. Si svolgerà l’8 e 9 novembre a Las Vegas, città ideale per le grandi convention (qui si teneva il famoso Comdex, salone mondiale dell’informatica). Si chiama BlogWorld & New Media Expo e il suo scopo è di «promuovere la dinamica industria del blogging e dei nuovi media». Si annunciano 50 seminari e «lezioni» da parte dei più rappresentativi esponenti del settore. L’incontro arriva in un momento in cui vanno crescendo una certa delusione e molti criticismi sui blog: malgrado le statistiche più che lusinghiere, c’è chi sostiene che si «blogga di meno» e che comunque questo sottoinsieme del web è eccessivamente ripieno di materiali insignificanti.
I più feroci nei confronti dei blogger sono i professionisti dell’informazione che rivendicano a sé il valore dell’autorevolezza e della professionalità nella produzione di notizie e analisi. Al tempo stesso la blogosfera è divenuta un terreno di caccia prezioso per gli stessi giornalisti che qui pascolano per scovare in anticipo punti di vista e tendenze significative. In ogni caso le statistiche più recenti, riportate dal sito del convegno (www.blogworldexpo.com/) sono queste:
sono 12 milioni gli americani che hanno un proprio blog, a fronte di 147 milioni che usano l’internet;
57 milioni di questi leggono i blog;
1,7 milioni in qualche modo fanno soldi con i blog, per esempio con la pubblicità ad essi associata;
in un campione di aziende intervistate l’89 per cento pensa che nei prossimi cinque anni essi saranno sempre più importanti.
Secondo il motore di ricerca Technorati, specializzato nello schedare i contenuti della blogosfera, i blog esistenti al mondo sono circa 70 milioni, ma la stima è probabilmente per difetto, anche perché ogni giorno si valuta che ne vengano creati 120 mila ex novo. Il 51 per cento dei lettori di blog fanno anche acquisti online, il che spiega l’interesse del business per questo fenomeno. I lettori dei blog passano online in media 23 ore alla settimana, ovvero più di tre ore al giorno.
***
Un fenomeno parallelo è quello del giornalismo dal basso e partecipato (citizen journalism, grassroot journalism). Per una fase, nei mesi scorsi, esso è sembrato la nuova frontiera dell’informazione e molti esperimenti sono stati avviati. Ecco alcuni esempi poco noti, per una volta non americani:
NowPublic (www.nowpublic.com) è un sito partecipativo nato a Vancouver in Canada, che ha raccolto investimenti per 10,6 milioni di dollari. Viene alimentato da 170 mila reporter spontanei in 140 paesi. Il suo fondatore, Leonard Brody, ha dichiarato: «Abbiamo capito che c’era bisogno di un nuovo tipo di agenzia capace di raccogliere, organizzare e distribuire l’informazione». La speranza è di diventare la prima agenzia di stampa al mondo. Collegandosi a NowPublic si vedono le notizie emergere una dopo l’altra, sia pure in maniera caotica (felicemente caotica): la pagina elenco si anima in continuazione di fatti minuscoli, di immagini appena aggiunte, di rilanci da altre fonti.
Agoravox (www.agoravox.com) è un caso europeo, nato in Francia nel 2005 per iniziativa di Carlo Revelli e Joël de Rosnay. Conta su 956 autori-giornalisti e 1,2 milioni di visitatori. Revelli è ben consapevole che non tutti possono essere giornalisti e quindi propone un modello di giornalismo civico leggermente diverso: la redazione propone dei temi e delle inchieste, che un redattore centrale coordina, raccogliendo in contributi dal basso.
Rue89 è anch’esso un quotidiano francese (il manifesto ne ha parlato nelle settimane scorse), creato da un gruppo di giornalisti professionisti usciti da Libération per tentare una strada nuova, più dinamica e libera. In questo caso il modello, attivo dal maggio scorso, è misto perché cerca di mettere a frutto il contributo di tre popolazioni: i giornalisti di mestiere, gli esperti e i cittadini. A questi ultimi si rivolge così: «Voi siete i migliori testimoni della vostra attualità. Spediteci le vostre informazioni e i vostri link preferiti. Contattateci per proporre articoli, foto e video». I lettori sembra stiano crescendo significativamente, gli argomenti coperti sono tutti quelli di un vero quotidiano generalista, con sezioni anche in inglese (Street89) e spagnolo (Calle89) e per settembre è prevista una nuova versione.

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media al test della provetta

Posted by franco carlini su 28 giugno, 2007

Per il quindicesimo anno, si è svolta una sessione dell’Hands-on Laboratory. In Italia, una cosa del genere per i lavoratori dell’informazione, la organizza il Laboratorio di biologia dello sviluppo di Pavia

Luca Tancredi Barone

Se un giorno, affacciandovi alla porta di un laboratorio del Max Planck Institut di Göttingen (una cittadina collocata esattamente nel centro geografico della Germania), doveste scorgere un gruppetto di pasticcioni, con guanti di lattice, sguardo perplesso e la destrezza di un elefante nel maneggiare pipette e provette, non pensate subito male degli scienziati. Potreste esservi imbattuti in uno dei gruppi di giornalisti scientifici che partecipano al programma Eicos (European initiative for communicators of science). All’inizio del mese si è svolta per il quindicesimo anno una sessione dell’Hands-on Laboratory, un «laboratorio metteteci le mani». Una cosa del genere in Italia la organizza il Laboratorio di biologia dello sviluppo di Pavia. Lo scopo è aiutare i giornalisti scientifici a narrare con cognizione di fatto, non solo per sentito dire.
Di che si tratta? Si prendono – nel caso di Eicos – quattordici giornalisti e comunicatori scientifici da tutta Europa, li si divide in quattro gruppi e li si consegna nelle mani di altrettanti gruppi di ricerca. Una specie di Isola dei famosi, dove per una intera settimana si lavora, si vive, si mangia tutti insieme in un centro di ricerca isolato dal mondo, solo che anziché indossare un costume, mostrare i muscoli e cimentarsi in imprese improbabili, qui si indossano guanti (e giacche pesanti quando si passano lunghi periodi nella cella frigorifera), si ascoltano seminari e si seguono rigorose procedure scientifiche sotto gli occhi pazienti di un generoso gruppo di brillanti dottorandi, guidati ciascuno da uno dei capi del laboratorio. L’obiettivo era quello di realizzare, dall’inizio alla fine, un esperimento vero nell’ambito delle ricerche di punta del laboratorio assegnato.
Il primo tema era di competenza del laboratorio di neurobiologia: il gruppo aveva il compito di lavorare con una cellula neurale, analizzando alcune delle proteine coinvolte nella trasmissione del segnale nervoso e il processo di fusione delle vescicole, sacche presenti all’interno della cellula che rilasciano alcune sostanze chimiche le quali a loro volta «accendono» o inattivano i neuroni. Un secondo gruppo ha lavorato con il dipartimento di biofisica teorica e computazionale: lo scopo era quello di simulare, grazie ad appositi programmi al computer, forma, comportamento e movimenti di alcune proteine chiave per certi processi biologici. Un altro gruppo ha lavorato al dipartimento di biologia molecolare dello sviluppo sulla Drosophila, il moscerino della frutta, l’insetto superstar della genetica fin dai suoi esordi, per studiare l’espressione di alcuni suoi geni legati alla differenziazione sessuale. Il gruppo in cui ha lavorato chi scrive era ospitato dal dipartimento di biochimica cellulare e si è occupato di Rna, la molecola protagonista di quello che il settimanale Economist ha definito il nuovo «Big Bang della biologia». L’attenzione del gruppo era concentrata su una fase del meccanismo di trascrizione dell’informazione genetica dal Dna alle proteine, gli ingredienti fondamentali per consentire a un organismo di svolgere tutte le sue funzioni vitali (vedi sotto).
Solo che la maggior parte di questo tipo di esperimenti va fatto in maniera indiretta: ad esempio, né l’Rna, né le proteine si vedono a occhio. I risultati e gli errori vanno interpretati all’interno di un modello teorico di riferimento. Tutti i pezzi del puzzle che formano la teoria vengono conquistati a fatica immaginando ogni volta esperimenti da modificare mille volte prima di poter fornire un risultato utile. Che magari è un gel appiccicoso e rettangolare con tante colonne marroncine (contenenti preziose proteine o Rna altrettanto importante).
La biologia, insomma, è maledettamente più complicata e subdola di quanto non possa sembrare. E non soltanto perché i giornalisti sono meno pazienti e precisi di chi in laboratorio passa intere giornate.
Ma è anche una scienza in un certo senso modesta: non pretende di trovare la Tteoria del Tutto». E, dato che si scontra tutti i giorni con la complessità del vivente, ha imparato, più della fisica, quanto tutte le conoscenze e i dogmi siano relativi. È anche la scienza da tenere sott’occhio: gli interessi che le girano attorno non sono solo scientifici (e di aspetti da chiarire su come funzioniamo ce ne sono ancora un mucchio), ma, come è ovvio, anche economici. E mano a mano che il potenziale della biologia si dispiegherà, come prevede anche l’Economist, le tentazioni riduzioniste e semplicistiche di spiegare tutto aumenteranno. Non perdetevi le prossime puntate.

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Integrare carta e web

Posted by franco carlini su 21 giugno, 2007

giornalismi

 

Il comitato di redazione del quotidiano La Repubblica nei giorni scorsi ha segnalato ai lettori, con una certa soddisfazione, che è stato raggiunto un accordo con l’editore e la direzione a proposito della multimedialità: «Repubblica, così, diventa il primo quotidiano italiano che avvia l’integrazione tra giornale su carta e giornale on line». In sostanza, e per ora in via sperimentale, si va verso la fine della barriera tra redazione di carta e di web. Erano nate separate e tali erano rimaste negli anni, sia pure con una crescente porosità. Lo scopo è di «arricchire i contenuti dell’informazione di Repubblica, nel suo complesso, avvalendosi di tutte le professionalità presenti nell’intero corpo redazionale». Per ora nessun singolo giornalista è obbligato a lavorare su entrambe le piattaforme, verranno offerti corsi di formazione e qualche forma di incentivo. Sulla stessa linea si stanno muovendo un po’ tutti: per esempio alla Gazzetta dello Sport e anche al genovese Il Secolo XIX è iniziato il confronto sindacale al riguardo. Almeno alcuni editori sembrano essersi resi conto che l’online è obbligatorio e che esso chiede strutture e investimenti. Dall’estero è arrivata anche la notizia di una complessiva ristrutturazione, anche nei quadri dirigenti, dell’intera redazione di carta e del sito del Wall Street Journal. La decisione era nell’aria da tempo, ma può essere stata accelerata dall’offerta di acquisto sul gruppo editoriale americano da parte di Rupert Murdoch: caso mai dovesse farcela, è senza dubbio meglio che il magnate dei media trovi strutture già consolidate anche sul fronte internet, che gli sarà più difficile smantellare.

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Tony Blair e i media, voce del tempo che fu

Posted by franco carlini su 13 giugno, 2007

Tony Blair, la politica e la stampa. La sua riflessione è aggiornata, il tono combattivo, gli aggettivi pesanti. Ormai in uscita dal ruolo di primo ministro, egli si va trasformando in pensatore e opinion maker.

Un lungo articolo di bilancio della sua esperienze è stato pubblicato dal settimanale The Economist il 31 maggio. Nei giorni scorsi, poi, il 12 giugno, ha tenuto una conversazione pubblica al Reuters Institute for the Study of Journalism, che ha avuto molto eco.

Il testo è disponibile in rete, dove si trovano anche la registrazione video e i primi commenti.Il discorso è stato ripreso (parzialmente e con qualche arbitrario riassunto) dalla La Repubblica del 13 giugno.

Il tema dell’ intervento era il rapporto, faticoso e conflittuale, tra la politica e i media. Questione di attualità anche in Italia, a proposito di dossier e intercettazioni pubblicate. Su questo tema Blair procede assai polemicamente, ma pone anche dei problemi veri.

Vediamo lo svolgimento del discorso (in corsivo i nostri commenti)

Esso inizia con un doveroso ma rituale omaggio alla libertà di informazione: «a free media is a vital part of a free society». Aggiungendo tuttavia che della libertà fa parte anche al critica ai media, che egli intende sviluppare, senza peli sulla lingua, per così dire.

Qui si inserisce la prima mossa retorica: l’esibizione di modestia. Con un tono retrospettivo di sincerità e autocritica, Blair riconosce che nei primi tempi del suo potere (13 anni) cercò di avere con i media un rapporto complice, in sostanza cercando di persuadere e convincere. Un po’ di spin-doctoring, insomma.

Aggiunge che il rapporto tra i due poteri è stato sempre stato difficile, ma che oggi è peggiorato e questo è un problema. Peggiorato perché è cambiato il contesto dei media.

Qui l’analisi è ragionevole: i media sono più frammentati, perdono pubblico, l’informazione oramai avviene 7 giorni su 7, 24 ore su 24, le persone si alimentano dell’internet e dai blog.

Perciò i media (egli pensa soprattutto a quelli tradizionali) si trovano a seguire come unico criterio quello del massimo impatto, in un mercato che per loro si va restringendo.

Adesso si inserisce la frase ad effetto, quella destinata ad alimentare i titoli dei giornali, fatto del quale Blair (o chi gli ha scritto il discorso) è certamente consapevole; si tratta di un effetto voluto:

La paura di perdere qualcosa di importante, fa sì che oggi i media vadano cacciando in branco. «In tali circostanze sono come una belva selvaggia, che fa a pezzi le persone e la loro reputazione».

Da qui gli scandalismi, il pregiudizio negativo che vede nell’azione dei politici sempre qualcosa di oscuro e di riprovevole, nonché il peso eccessivo dato ai commenti e alle opinioni, le quali diventano “fatti” anche quando sono solo battute. Ma “fatti” che i politici non possono trascurare e che sono obbligati a inseguire smentendo e correggendo. Una rincorsa continua, un processo continuo e ansiogeno di perenne “crisis management”.

L’unico esempio citato esplicitamente è il quotidiano The Independent, che sarebbe sempre più un viewspaper (cioè portatore di punti di vista), anziché un newspaper, portatore di notizie. La polemica con l’ Independent e la citazione delle sue corrispondenze dal Medio Oriente sembra indicare che Blair abbia trovato particolarmente fuori posto i servizi del famoso (e non allineato) giornalista Robert Fisk.

A questo punto Blair, si dedica a un altro esercizio di retorica: «sto per dirvi qualcosa che pochi osano dire pubblicamente, ma che molti sanno essere assolutamente vero: oggi un importante aspetto del nostro lavoro (..) consiste nel far fronte ai media, al loro peso e alla loro continua iperattività. Talora ciò è letteralmente opprimente».

Non c’è da dubitarne, ma all’analisi manca un tassello e precisamente questo: in realtà i media tradizionali e i politici giocano esattamente la stessa partita e fanno parte della stessa casta. Quello che i giornali pubblicano in parte è destinato al grande pubblico (che si tratti di Kate Moss con la polvere bianca o dei reali d’Inghilterra), ma una parte rilevante viene giocata in complicità con i poteri e per fini di potere. Le dichiarazioni che i politici si affanno a diramare, e altri a smentire, dovrebbero legittimamente essere considertai dei fattoidi, e invece vengono promosse a rango di fatti.

Nella parte finale Blair confessa di avere creduto e sperato che i nuovi media potessero servire da correttivo ai difetti dei grandi giornali e network televisivi. Ma ora è giunto alla conclusione che «in realtà le nuove forme possano essere anche più pericolose, meno bilanciate, più interessate all’ultima teoria del complotto, moltiplicata per cinque».

La conclusione è all’insegna della speranza: che questo gioco perverso si fermi, perché fa male a tutti e perché si sente un bisogno di fatti separati dalle opinioni e di maggiore serietà e imparzialità. Dovevo dirvelo e ve l’ho detto, anche se molti butteranno nel cestino queste mie parole.

In sostanza, letto e riletto l’ultimo Blair, si possono trarre queste seguenti provvisorie conclusioni:

1. Non c’è alcuna seria riflessione da parte del politico nel modo con cui corteggia i (o con loro confligge) . Essi sono da un lato sopravvalutati e dall’altro guardati con pregiudizio negativo: anziché apprezzarne il ruolo di watchdog, li considera pregiudizialmente nemici e se ne sente perseguitato – il che per uno che ha avuto e forse contrattato l’appoggio dei media di Rupert Murdoch è quantomeno curioso.

2. La riproposizione dei fatti separati dai commenti non è mai stata vera, essendo pura ideologia: anche i fatti, per come sono scelti e impaginati, sono sempre dei punti di vista soggettivi di giornalisti e direttori. Lo insegnano persino al liceo.

3. Tutto l’approccio di Blair è all’insegna dell’antico. Egli vede i media, vecchi e nuovi, come canali di una comunicazione dall’alto in basso. Glie lo ha dovuto ricordare un anziano signore come Tim Gardam, presidente del comitato direttivo del Reuters Institute Steering, già alla Bbc e a Channel 4: «L’internet ha distrutto queste vecchie certezze. La sua traiettoria della comunicazione non è verticale ma orizzontale – reti di conversazioni che trovano il loro percorso attraverso un argomentare non strettamente determinato e dove ognuno può partecipare e avere parola. Questo è un paradigma differente, dove l’efficacia della politica non dipende dal potere del messaggio o dal carisma dì chi lo emette ma da come si gestisce la conversazione che da esso fluisce».

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Tutti rincorrono (a ostacoli) il web

Posted by franco carlini su 31 Maggio, 2007

La Stampa, Panorama, La Gazzetta dello Sport e, dalla settimana scorsa, il Secolo XIX. Gli allarmi ripetuti sulla crisi dei giornali di carta stanno spingendo molti editori a rivedere e migliorare la loro presenza sul web. Il restyling della Stampa è quello relativamente più vecchio e forse il più radicale, dato che spinge molto sull’apertura ai contributi dal basso, da parte dei lettori, cui viene offerta la possibilità di aprire dei loro blog. Delizioso tra gli altri il blog Ad-Secretary. La Gazzetta dello sport, a sua volta, punta molto alle reti sociale. Così sul sito della rosea testata c’è anche uno spazio specifico per la comunità parlante dei lettori; si chiama Gazza Space, con ovvia assonanza all’americano MySpace. Lì è possibile, come in tutti i social network, creare un proprio profilo personale, con foto, hobby, passioni, preferenze, e un proprio blog. Si moltiplicano i forum, ovviamente, sulle più minute analisi dei diversi sport. Quanto al confratello genovese (www.ilsecoloxix.it) ci sono due novità, oltre al doveroso ridisegno delle pagine: l’idea è di puntare a un pieno coinvolgimento dell’intera redazione e di non operare con squadre duplicate. Il quotidiano infatti, oltre alla carta, ha anche una radio, Play19, e il sito. In passato succedeva che la stessa notizia venisse cucinata tre volte, da tre diversi giornalisti. In futuro, se sindacato ed editore troveranno un equo accordo, tale distinzione potrebbe venire superata, al «Decimonono» come negli altri giornali. Come su queste pagine si è già accennato, ciò pone sia dei problemi contrattuali che organizzativi e culturali. Cosa significhi passare da un modello redazionale cadenzato sui tempi della tipografia e dell’edicola a uno basato su di un flusso costante di notizie e aprofondimenti non è chiaro a nessuno, come forse è inevitabile in ogni fase di sperimentazione.

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Sesso, bugie e video-sharing

Posted by franco carlini su 24 Maggio, 2007

Il polverone sul documentario della Bbc «Sex Crimes and the Vatican» offre almeno tre spunti di riflessione sull’attuale ecosistema dell’informazione in Italia.

Primo: abbiamo finalmente la prova certa che la sfera pubblica online è in grado di influenzare in maniera dirompente l’agenda mainstream. E’ bastato che un blogger sottotitolasse il filmato e lo condividesse in rete per imporre all’attenzione del paese una discussione per certi versi patetica, ma per molti altri costruttiva, se non altro per il precedente stabilito. Lo studioso Geert Lovink ripete spesso che la blogosfera rappresenta un ottimo canale di ritorno: «I blog creano una nuvola densa di impressioni intorno a un argomento, ti dicono se il tuo pubblico è ancora sveglio e ricettivo». Con le oltre 500 mila visite su Google Video e il tam-tam impazzito in rete, i navigatori italiani hanno dimostrato di essere più che ricettivi (e poco imbavagliabili). Questo è bene tengano a mente i tanti che pensavano di adottare manovre censorie vecchio stile.
Secondo:  il passaggio dalle pagine di un blog alle stanze di viale Mazzini non è stato così immediato come molti vogliono far credere. La popolarità online del video e la conseguente irruzione sull’agenda nazionale sono arrivate solo dopo che Beppe Grillo (una blog-star) e Repubblica.it hanno rilanciato la notizia, scatenando gli abituali fiumi d’inchiostro della grande stampa. Come dire, ci troviamo in uno scenario estremamente complesso e stratificato, in cui un ruolo determinante, soprattutto sul versante della notiziabilità, spetta ancora alle agenzie mainstream. Questo è bene che i blogger più integralisti lo tengano a mente.
Terzo: non è accaduto, ma se la Rai avesse deciso di bloccare la trasmissione, solo chi dispone di un collegamento veloce avrebbe avuto accesso al documentario. E questo si chiama digital-divide. (n. b.)

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Bentornata Tele Kabul

Posted by franco carlini su 10 Maggio, 2007

Il mestiere del giornalista consiste nel dare notizie, situandole nel loro contesto, e nell’esercitare un controllo sui poteri economici e politici, in nome e per conto dell’opinione pubblica. Per questi motivi il servizio offerto due domeniche fa dal Tg1all’ambasciatore afgano in Italia dovrebbe essere proiettato in ogni scuola come esempio di come non si fanno le interviste. Notizie nuove non ce n’erano, avendo l’ambasciatore semplicemente ribadito quanto già detto: il funzionario di Emergency Ramatullah Hanefi avrà presto un processo con avvocato; ci dispiace che Emergency se ne sia andata e speriamo che ritorni. Né prima né dopo il servizio il Tg1 ha ritenuto di ricordare i contorni della vicenda, non si dice di commentare. Quanto alle domande ecco quelle che la giornalista non ha fatto: Signor ambasciatore, qual è il reato del codice penale di cui il funzionario di Emergency è accusato? Presto quando, il processo? Come mai in uno stato di diritto quale l’Afghanistan sostiene di essere, non ha potuto incontrare un avvocato di fiducia in tutti questi giorni? E’ a conoscenza signor ambasciatore che quattro operatori di Emergency si sono dovuti affidare alla tutela dell’ambasciata italiana di Kabul e rimpatriare con un volo delle Nazioni Unite dato che la vostra polizia voleva ritirargli il passaporto? Quali sono le condizioni di sicurezza che garantite alle Ong? Quali accordi il suo governo prese a suo tempo con quello italiano riguardo alle gestione delle trattative? Ovviamente l’ineffabile avrebbe risposto poco e contorto, ma la giornalista avrebbe almeno fatto capire ai telespettatori che la vicenda aveva diversi aspetti non chiari. Lunedì scorso, poi, la ciliegina: la conferenza stampa di Mastrogiacomo e le dichiarazioni Emergency sul caso Hanefy hanno meritato zero secondi, soverchiata da Bertinotti in mezzo ai parà.

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