Chips & Salsa

articoli e appunti da franco carlini

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Archive for the ‘Uncategorized’ Category

L’uguaglianza al lavoro

Posted by franco carlini su 22 agosto, 2007

editoriale, IL MANIFESTO, 21 AGOSTO

 

Franco Carlini

La notizia del giorno è che, per una volta almeno, il professor Pietro Ichino, dalle colonne del Corriere della Sera, non se la prende con i sindacati, di solito indicati come i responsabili di ogni possibile conservatorismo sociale, ma abbozza una riflessione più equilibrata. Il ragionamento è questo: l’uguaglianza è «un valore fondante di una sinistra degna di questo nome», ma sbaglia chi pensa che essa si realizzi abolendo la legge Biagi e la legge Treu, perché i processi che generano disuguaglianza sono ben più profondi e globali, e quelle leggi, aggiungiamo noi, al più li hanno registrati, o tentato di mitigarli. Chi ne dubiti è inviato a rileggere il «Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia» di Marco Biagi e a confrontarlo con la sua scadentissima traduzione nella Legge 30 e soprattutto con l’uso spregiudicato e distorto che ne hanno fatto le aziende.
Secondo Ichino le disuguaglianze in salario e diritti tra i lavoratori dipendono dal fatto che, a monte, è disuguale la produttività tra i lavoratori: quella degli operai poco oscillava, dato che era rigida la catena del lavoro fordista, mentre ora, anche per effetto delle tecnologie in continuo mutamento, può esserci una differenza da uno a cento nella produttività di due lavoratori formalmente uguali. Il dato è francamente stupefacente e sarebbe interessante sapere come è stato ricavato e in che ambiti.
Ma di quale produttività si parla qui? Quella che misura la quantità di prodotti-servizi in rapporto alle risorse umane impiegate (tempo) o quella del fatturato (e profitti) in rapporto al costo del lavoro? Nel primo caso le tecnologie c’entrano eccome e quasi sempre migliorano la resa, anche se esistono molti esempi in cui l’introduzione dell’information technology senza modificare in meglio l’organizzazione del lavoro hanno addirittura peggiorato i risultati. Chi studi seriamente la pubblica amministrazione ne ha esempi infiniti, che spiegano anche il sorgere dei famosi e cosiddetti «fannulloni».
Nel secondo caso, che guarda solo ai salari, sono in molti ad aver pensato che sia più «produttivo» usare bassa tecnologia con bassissimi salari (altro che innovazione), nel contempo usando la pressione del resto del mondo per abbassare gli stipendi anche in occidente, come tutte le statistiche hanno ampiamente documentato e come solo Luca Cordero finge di non sapere. Salvo accorgersi che le Barbie velenose fatte in quella maniera producono più danni che qualche centesimo in più a pezzo e si trasformano in un disastro di reputazione. Altre aziende, più avvertite, dopo qualche escursione nell’Asia a basso costo, hanno preferito investire in automazione, per garantirsi più controllo e qualità. Non per caso la gran parte degli occhiali Luxottica, il gioiello italiano appena esaltato dall’Economist, vengono tuttora fatti ad Agordo, Belluno, e non solo in Cina.
Ma soprattutto, come ha fatto notare con scientifica precisione l’inascoltato Giuliano Gallino su Repubblica del 15 agosto, c’è il «conflitto tra salari e diritti dei nostri paesi e quelli dei paesiin via di sviluppo». Secondo Gallino la quota dilavoro precario nel nostro paese è ben superiore a quella di solito indicata: non già un solo lavoratore su sette, come suggerisce Ichino, ma probabilmente 8milioni di persone, tra precari ufficiali e molti altri nascosti nel nero, quasi uno su tre.
Se fosse vera la tesi di Ichino che è la capacità di «saltare sull’autobus dell’innovazione» a generare le disuguaglianze, non si capisce perché i giovani, di solito vivaci e tecnologici, debbano essere pagati di meno e così precariamente.
Ichino sostiene che l’uguaglianza non si garantisce per legge, ma che vada costruita « nel vivo della società civile», soprattutto con formazione,informazione e aiuto alla mobilità. Trascura tuttavia un dettaglio grande come un macigno: finché la legge metterà a disposizione delle aziende facili modalità di utilizzo della forza lavoro giovane a basso costo e senza troppo impegno, non c’è formazione qualificata che possa farsi valere nella vendita della forza lavoro.
Il protocollo Prodi-Damiano che offre la possibilità di prolungare oltre i tre anni i contratti a termine è esattamente la negazione di quanto Ichino sostiene e dovrebbe essere lui il primo a indignarsi e a manifestare con noi, il 20 settembre,in un giorno convocato su temi ben più ampi e ambiziosi della sola Legge 30. Lo aspettiamo fiduciosi.

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arrivederci al 23 agosto

Posted by franco carlini su 2 agosto, 2007

L’inserto Chips & Salsa del manifesto prende tre settimane di pausa (e di letture, pensate e refresh dei neuroni).

Riprende giovedì 23 agosto, ma presto cambierà di nuovo, dato che il quotidiano sta per essere rivoluzionato, secondo il piano editoriale approvato dal collettivo.

Su questi temi continuano comunque i contributi di Franco Carlini e di altri amici redattori sul quotidiano di cronache digitali VisionPost

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Sceneggiatori per un nuovo contratto

Posted by franco carlini su 26 luglio, 2007

marina rossiSta per scadere il contratto di lavoro tra i produttori video, riuniti nella Amptp (Alliance of Motion Picture and Television Producers) e l’associazione degli sceneggiatori che operano nell’industria dell’intrattenimento statunitense, la Wga (Writers Guild of America). Va aggiornato anche perché la rete ha cambiato l’intero ciclo dei media, dalla produzione alla distribuzione. Tra gli argomenti più dibattuti, il calcolo della remunerazione: l’attuale sistema non considera i proventi derivanti dalla rete o dalla fruizione mobile come su iPod. Per un’analisi approfondita è stato avviato uno studio triennale. Per gli scrittori della Wga (solitamente divisa nelle due aree orientale e occidentale degli Stati Uniti) l’obiettivo è, ovviamente, quello di ottenere contratti più sostanziosi: oggi, una sceneggiatura può assumere diverse forme di distribuzione e un successo superiore, ma frammentato, rispetto ai canali tradizionali. Dal punto di vista degli studios, invece, il calo delle vendite di dvd e degli spettatori tradizionali di cinema e televisione, sono validi motivi per mantenere il contratto inalterato.  L’influenza della rete sul circo dell’intrattenimento è evidente, ma anche difficile da misurare. Il buzz, il passaparola su internet, può rivoluzionare l’atteggiamento del pubblico e decretarne il successo o l’insuccesso. Tra i casi più recenti, Snakes on a plane, un b-movie con Samuel L. Jackson che ha modificato la trama ascoltando il pubblico della rete durante la lavorazione, oppure la serie tv Lost che deve il suo massimo successo alla comunità nata spontaneamente online. Proprio il produttore di Lost, J.J.Abrams, ha generato  un clima di attesa grazie al passaparola riguardo al suo ultimo lavoro, ancora senza titolo e ancora in lavorazione, ma di cui un misterioso trailer è stato mostrato nei cinema Usa all’anteprima di Transformers.

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Quanta fretta signora Reding

Posted by franco carlini su 18 luglio, 2007

di Franco Carlini

18/07/2007 – 18:38

La decisione della Commissione europea su impulso della commissaria Viviane Reding di puntare sul Dvb-h è sbagliata per diversi motivi. Impedisce al mercato di scegliere il vincitore e scommette su un’idea irrealistica di Tv mobile. (segue su VisionPost)

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I facinorosi col bicchiere

Posted by franco carlini su 29 Maggio, 2007

il manifesto, 29 maggio 2007, pag. 2

All’inizio poteva sembrare una semplice, anche se un po’ meschina gelosia: che cosa ci fa Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, nel comitato dei 45 che prepara le regole del partito democratico? Si è lamentato il sindaco torinese Chiamparino, in quanto escluso, lui e tutto il nord ovest. Si è dilungato in sgradevoli insinuazioni il principe dei risotti televisivi, Gianfranco Vissani, sostenendo che da mesi Carlin va chiedendo a Fassino di fare il ministro dell’agricoltura e che prima o poi finirà persino per appoggiare gli Ogm.

Poi è arrivato l’accidioso Giampaolo Pansa, ricordando la statura dei piemontesi storici di sinistra, quali Gobetti, Gramsci, Terracini, Togliatti, Bobbio, mentre ora «il mio Piemonte è rappresentato da Carlin Petrini … la politica italiana si è coperta di discredito con le sue stesse mani». Ullallà.

Se è invidia, è poverella, perché un posto in un comitato burocratico di un partito che nasce sfasciato, non dovrebbe «far gola» a nessuno che abbia un po’ di buon senso. Quando, con «i compagni di Brà», si viaggiava in treno da Roma verso il nord, di ritorno dai convegni di partito, la passione per la politica non  veniva mai meno, ma sempre era associata al fastidio, già allora insopportabile, per i riti e le forme del potere, anche quelli delle piccole formazioni cosiddette extraparlamentari. Così abbiamo continuato, ognuno per le sue diverse vie, sempre dentro la politica, ma anche fuori, con distacco critico. Non per caso il manifesto a un certo punto tornò a essere solo un giornale, anziché una forza politica.

Il dubbio lecito, conoscendo chi agita queste polemiche, è che il bersaglio non sia tanto la provvisoria presenza del fondatore nel Pd-pre-comitatino, quanto l’idea di politica civile che

Slow Food va praticando, non solo in Italia, ma in giro per il mondo. Si avverte un sentimento ostile che non è puramente territoriale, né personale. Intanto perché questa associazione-movimento ha saputo influenzare l’agenda  politica parlando a tutti gli schieramenti, senza arruolarsi con nessuno. Quando c’è stato da essere con la Val di Susa c’erano, senza farsi problemi di alleanze. A quanti discettano di crisi della politica dovrebbe piacere una tale capacità, tipica della migliore sfera pubblica – quella alla Habermas, per capirsi, dove la società, che i politici di solito immaginano caotica e volgarmente protestataria, produce sia idee nuove che forme di organizzazione, e queste diventano fatto pubblico, istanze riconosciute. Lo stesso avvenne a suo tempo, e con le dovute differenze, nel movimento delle donne.

L’altra cosa importante dei «facinorosi col bicchiere» partiti dal Roero per arrivare fino in Giappone e Stati Uniti, ma soprattutto nei paesi più poveri dell’Africa con la rete di Terra Madre, è  l’aver reso evidente come una questione apparentemente semplice e godereccia, come la qualità della vita, del cibo e del tempo lento, chiami in causa una filiera globale, dove quello che c’è in tavola è fatto di saperi popolari e di lavoro, spesso sfruttato e invisibile. Quei temi sono materiali perché è tale ciò che nel corpo fisico immettiamo ogni giorno, in forma di cibo. «Ribelli, sognatori e fuggitivi» scriveva il romanziere argentino Osvaldo Soriano, tanto caro ai lettori di questo giornale per le sue passioni autenticamente di sinistra per il cibo, il football e il cinema; due di questi aggettivi, i primi due, ben si prestano a descrivere l’anima di questo movimento. Ma «fuggitivi» invece no, semmai «costruttori», e presuntuosi quel tanto da non farsi turbare dalle lusinghe interessate né dalle gelosie sciocchine.

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Rodotà e la democrazia elettronica

Posted by franco carlini su 10 marzo, 2007

Stefano Rodotà

The Role of Parliaments in the Development in the Information    Society

Keynote Speech – Inter-Parliamentary Union International Conference

Qual è il destino dei parlamenti nell’età dell’informazione e della comunicazione? Alcuni anni fa, quando cominciò il dibattito sulla democrazia elettronica, sembrava che le nuove tecnologie avrebbero portato ad una progressiva scomparsa della democrazia rappresentativa, sostituita da forme sempre più diffuse di democrazia diretta. Nel nuovo agorà elettronico i cittadini avrebbero potuto prendere sempre la parola e decidere su tutto.
La memoria dell’antica Atene e il modello dei town meetings del New England apparivano come la forma nuova della democrazia, con un intreccio tra antico e nuovo che avrebbe via via cancellato il ruolo dei parlamenti. Nel 1994, un influente uomo politico americano, Newt Gingrich, che sarebbe diventato Speaker della Camera dei Rappresentanti, parlava di un “Congresso virtuale”, che avrebbe sostituito il Congresso tradizionale, affidando al voto elettronico di tutti i cittadini anche le scelte legislative.

Oggi queste ipotesi sono lontane, e la democrazia elettronica segue strade diverse da quelle di una brutale e ingannevole semplificazione dei sistemi politici. Ma questo non vuol dire che i parlamenti possano trascurare le grandi novità determinate dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che incidono profondamente sul loro ruolo e sul modo in cui si struttura il loro rapporto con la società. Non siamo di fronte a semplici strumenti tecnici, ma ad una forza potente, la tecnologia nel suo complesso, che sta trasformando in modo radicale le nostre società. Stiamo passando, su scala mondiale, da un equilibrio tecnologico all’altro. E un grande antropologo, Marvin Harris, ha sottolineato che “il momento decisivo per una scelta consapevole si ha soltanto durante la fase di transizione da un modo di produzione all’altro. Dopo che una società ha scelto una particolare strategia tecnologica ed ecologica per risolvere il problema dell’efficienza declinante, può essere impossibile modificare le conseguenze di una scelta poco intelligente per un lungo periodo futuro”. Il primo, grande compito dei parlamenti, oggi, è dunque quello di cogliere questo momento, di compiere tempestivamente le scelte intelligenti necessarie perché l’insieme delle tecnologie si risolva in un rafforzamento complessivo della democrazia.

Sono divenute chiare alcune linee di analisi e di intervento, che possono essere così riassunte:

-evitare che le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione portino ad una concentrazione invece che ad una diffusione del potere sociale e politico;
-evitare che le nuove tecnologie, invece di favorire una vera partecipazione dei cittadini, si consolidino come la forma del populismo del nostro tempo, con un continuo scivolamento verso la democrazia plebiscitaria;
-evitare che ci si trovi sempre più visibilmente di fronte a tecnologie del controllo invece che a tecnologie delle libertà;
-evitare che nell’età dell’informazione e della comunicazione nuove disuguaglianze si aggiungano a quelle esistenti;
-evitare che il grande potenziale creativo delle nuove tecnologie porti non ad una diffusione della conoscenza come grande bene comune, ma a forme insidiose di privatizzazione.

Pure l’età digitale, dunque, ha i suoi peccati, sette come vuole la tradizione, e che sono stati così enumerati:

1) diseguaglianza;

2) sfruttamento commerciale e abusi informativi;

3) rischi per la privacy;

4) disintegrazione delle comunità;

5) plebisciti istantanei e dissoluzione della democrazia;

6) tirannia di chi controlla gli accessi;

7) perdita del valore del servizio pubblico e della responsabilità sociale.

 

Non mancano, tuttavia, le virtù, prima tra tutte l’opportunità grandissima di dare voce a un numero sempre più largo di soggetti individuali e collettivi, di produrre e condividere la conoscenza, sì che ormai molti ritengono che la definizione che meglio descrive il nostro presente, e un futuro sempre più vicino, sia proprio quella di “società della conoscenza”. Al di là delle immagini e delle metafore, i parlamenti non sono chiamati a scegliere tra il bene e il male. Di fronte ad una realtà complessa, nella quale convivono società della conoscenza e società del rischio, i parlamenti devono ribadire la loro storica e  insostituibile funzione di custodi della libertà e dell’eguaglianza.

Non sono riferimenti retorici. La tecnologia è prodiga di promesse. Alla democrazia offre strumenti per combattere l’efficienza declinante, e arriva fino a proporne una rigenerazione. Ma, se guardiamo al mondo reale, alle tendenze in atto, rischiamo di incontrare sempre più spesso un uso delle tecnologie che rende capillare e continuo il controllo dei cittadini. A queste tendenze bisogna reagire, non solo per sfuggire ad una sorta di schizofrenia istituzionale che spinge verso la costruzione di un mondo diviso tra le speranze di libertà e l’insidia della sorveglianza. E’ necessario soprattutto considerare realisticamente le dinamiche sociali, a cominciare da quelle che rischiano di produrre nuove diseguaglianze.

Questo problema viene solitamente indicato con l’espressione digital divide, ed effettivamente l’uso delle tecnologie, di Internet in primo luogo, produce stratificazioni sociali, l’emergere  di nuove categorie di haves e di have nots, di abbienti e non abbienti proprio per quanto riguarda la fondamentale risorsa dell’informazione. Ma le più attendibili ricerche sul digital divide mettono in evidenza che il divario tra paesi sviluppati e paesi meno sviluppati, per quanto riguarda l’accesso ad Internet, non può essere esaminato riferendosi prevalentemente alle differenze di reddito.

 

Pur rimanendo profondissime, infatti, le distanze riguardanti Internet tendono a ridursi più rapidamente di quelle relative alla ricchezza. Questo vuol dire che i fattori influenti non sono tanto quelli economici, quanto piuttosto quelli sociali e culturali, sì che l’attenzione deve essere in particolare rivolta alle politiche dell’accesso ad Internet, tuttavia in una prospettiva che non si limiti!
a favorire l’accesso in sé, ma si preoccupi delle modalità d’uso e dei contenuti ai quali è possibile accedere. Altrimenti, non solo la propensione all’accesso ad Internet rimane più bassa per i paesi e i ceti più svantaggiati, ma le fonti della disuguaglianza persistono e tendono ad ampliarsi.

Questa è una indicazione assai importante per le politiche di sviluppo che i parlamenti devono promuovere, e per la cooperazione internazionale. Quando, infatti, l’accesso non è considerato soltanto nella prospettiva, pur importantissima, di assicurare a tutti la connettività alla rete, esso deve essere pensato in termini di accesso alla conoscenza, con evidente incidenza sulle politiche della formazione, della libertà, della proprietà.

Conoscenza è parola che sintetizza le possibilità di accedere alle fonti, di elaborare il materiale, raccolto, di diffondere liberamente le informazioni. Già nell’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite si è affermato il diritto di ogni individuo alla libertà di opinione e di espressione “e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”. Oggi questo diritto è in pericolo per la pretesa di molti Stati di controllare Internet, per l’esercizio di veri poteri di censura, per le condanne di autori di quelle particolari comunicazioni in rete che sono i blog. Questa situazione non può essere ignorata, soprattutto perché alcune grandi società – Microsoft, Google, Yahoo!, Vodafone – hanno annunciato per la fine dell’anno la pubblicazione di una “Carta” per tutelare la libertà di espressione su Internet. I parlamenti non possono accettare che la garanzia del free speech, che gli Stati Uniti vollero affidare al Primo Emendamento della loro Costituzione, divenga materia di cui si occupano solo i privati, che evidentemente offriranno solo le garanzie compatibili con i loro interessi. Sono urgenti in questa materia iniziative dei parlamenti nazionali, tuttavia coordinate tra loro dato il carattere transnazionale dei fenomeni da regolare, e tenendo conto che nell’Internet Governance Forum, organizzato dall’Onu alla fine dell’anno scorso, è stata esplicitamente indicata la priorità rappresentata dalla elaborazione di un Internet Bill of Rights.

Internet è il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto, dove si sta realizzando anche una grande redistribuzione di potere.. Un luogo dove tutti possono prendere la parola, acquisire conoscenza, produrre idee e non solo informazioni, esercitare il diritto di critica, dialogare, partecipare alla vita comune, e costruire così un mondo diverso di cui tutti possano egualmente dirsi cittadini. Ma tutto questo può diventare più difficile, per non dire impossibile, se la conoscenza viene chiusa in recenti proprietari senza considerare proprio la novità della situazione che abbiamo di fronte e che impone di guardare alla conoscenza come il più importante tra i beni comuni.

La questione dei beni comuni è essenziale. Parole nuove percorrono il mondo – open source, free software, no copyright – dando il senso di un cambiamento d’epoca. Oggi, infatti, il conflitto tra interessi proprietari e interessi collettivi non si svolge soltanto intorno a risorse scarse, in prospettiva sempre più drammaticamente scarse come l’acqua. Nella dimensione mondiale assistiamo ad una creazione incessante di nuovi beni, la conoscenza prima di tutto, rispetto ai quali la scarsità non è l’effetto di dati naturali, ma di politiche deliberate, di usi impropri del brevetto e del copyright, che stanno determinando un movimento di “chiusura” simile a quello che, in Inghilterra, portò alla recinzione delle terre comuni, prima liberamente accessibili. Questa scarsità artificiale, creata, rischia di privare milioni di persone di straordinarie possibilità  di crescita individuale e collettiva, di partecipazione politica.

La sfida lanciata ai parlamenti non riguarda soltanto la necessità di trovare nuovi equilibri tra logica della proprietà e logica dei beni comuni. Investe lo stesso modo d’intendere la cittadinanza. La vera novità democratica delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, infatti, non consiste nel dare ai cittadini l’ingannevole illusione di partecipare alle grandi decisioni attraverso referendum elettronici. Consiste nel potere dato a ciascuno e a tutti di servirsi della straordinaria ricchezza di materiali messa a disposizione dalle tecnologie per elaborare proposte, controllare i modi in cui viene esercitato il potere, organizzarsi nella società. Con questo vasto mondo – in cui la democrazia si manifesta in maniera “diretta”, ma senza sovrapporsi a quella “rappresentativa” – i Parlamenti devono trovare nuove forme di comunicazione, attraverso consultazioni anche informali, messa in rete di proposte sulle quali si sollecita il giudizio dei cittadini, procedure c!
he consentano di far giungere in parlamento proposte elaborate da gruppi ai quali, poi, vengano riconosciute anche possibilità di intervento nel processo legislativo. La rigida contrapposizione tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta potrebbe così essere superata, e la stessa democrazia parlamentare riceverebbe nuova legittimazione dal suo presentarsi come interlocutore  continuo della società.

In questa prospettiva, i parlamenti debbono rafforzare il loro ruolo in diverse direzioni. Promuovere la trasparenza nell’intero sistema istituzionale, rendendo così più efficace il controllo diffuso da parte dei cittadini, la loro “cittadinanza attiva”, che diventa anche un strumento essenziale  per la lotta alla corruzione. Non dimentichiamo quel che disse Louis Brandeis, il grande giudice della Corte suprema degli Stati Uniti: “la luce del sole è il miglior disinfettante”. Debbono agire come centro che promuove la conoscenza dei cittadini sulle questioni socialmente rilevanti. Debbono divenire il luogo istituzionale dove si svolge con continuità la valutazione degli effetti delle nuove tecnologie, riprendendo e aggiornando l’esperienza del “technology assessment”. Ma debbono soprattutto impedire che le esigenze di lotta a terrorismo e criminalità e le richieste del sistema economico portino alla nascita di una società della sorveglianza, della selezione e del controllo, a!
lterando quel carattere democratico dei sistemi politici di cui proprio i parlamenti sono i primi ed essenziali garanti.

Proprio le tecnologie, con la loro apparente neutralità, hanno rafforzato le spinte verso la creazione di gigantesche raccolte di dati personali. La politica sta delegando alla tecnica la gestione dei più diversi aspetti della società, dimenticando, ad esempio, un principio chiaramente indicato nell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In questa norma si ammettono limitazioni dei diritti per diverse finalità, compresa la sicurezza nazionale, a condizione però che si tratti di misure compatibili con le caratteristiche di una società democratica.  I parlamenti devono esercitare con il massimo rigore questa funzione di controllo, senza delegarla ad altri organi dello Stato, fossero pure le corti costituzionali. Solo così possono evitare la trasformazione dei cittadini in sospetti, ed impedire che, con l’argomento della difesa della democrazia, sia proprio la democrazia ad essere perduta.

Queste considerazioni possono apparire poco realistiche, soprattutto se si considera la notevole riduzione di poteri che, per diverse ragioni, i parlamenti hanno conosciuto in questi anni. Il potere si è notevolmente spostato nella direzione dei governi, molte possibilità di azione sono ormai escluse dal fatto che la sede delle decisioni si colloca fuori dagli Stati nazionali. Ma proprio la riflessione sulle tecnologie ci indica la possibilità di un cammino diverso.
Sulla scena nazionale ed internazionale compaiono attori sempre più numerosi. Si stenta a trovare un centro del sistema istituzionale, tanto che si è parlato di uno “Stato a rete”, sottolineando proprio il fatto che le tecnologie promuovono la crescita di una molteplicità di centri di decisione che riescono ad agire grazie alle forme di collegamento via via apprestate dallo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Ma l’osservazione della realtà ci dice che queste tecnologie non producono soltanto forme di policentrismo, di distribuzione dei tradizionali poteri sovrani tra soggetti non gerarchizzati. Rendono possibile anche centralizzazione e concentrazione dei poteri, esercizio di controlli di intensità senza precedenti. Questa deriva pericolosa può essere interrotta se i parlamenti riusciranno a sottrarre la politica alla seduzione di una tecnologia che deresponsabilizza, che si presenta come un rifugio dove la politica sfugge alla difficoltà delle  scelte, ed utilizzeranno, invece, proprio le tecnologie dell’informazione e della comunicazione  per far sì che le scelte possano tornare ad essere patrimonio di soggetti visibili, responsabili, controllabili.

La politica come “rete”, peraltro, offre all’antica istituzione parlamentare non una occasione di ringiovanimento, ma la possibilità di collegamenti che consentano ai diversi parlamenti, al di là delle frontiere, la comune consapevolezza dei problemi da affrontare. La cooperazione tra i parlamenti non è più una formula, ma una opportunità concreta che nasce dalla crescente possibilità di conoscenze comuni, di circolazione continua di informazioni. Da qui può nascere una nuova sfera pubblica mondiale, non più consegnata alle sole dinamiche dei mercati, ma riguadagnata alla logica dei poteri democratici.


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Il cetriolo italiano

Posted by franco carlini su 1 marzo, 2007

«Mi vergogno di avere quel portale sul mio browser». Questa la reazione inorridita di un amico alla comparsa sul monitor di Italia.it, il sito per il turismo italiano autoloeogiato dal ministro Rutelli. In pochi giorni si è registrata un’incredibile unanimità di dissensi nella rete italiana: vanno dall’indignazione per la somma stanziata, alla tecnologia, alla struttura e agli errori. Soprattutto al logo, da qualcuno felicemente definito un cetriolo in erezione. Le somme stanziate sono 21 milioni per l’inserimento di contenuti da parte delle regioni; 4 milioni per l’aggregazioni delle informazioni centralizzate; 7,8 milioni a Ibm per la piattaforma tecnologica; i restanti 12,2 per completarlo. In totale 45 milioni di euro. Ma c’è un problema più a monte: è giusto e possibile, per un paese vasto e ricco come l’Italia, progettare un sito unificato del turismo? Quando venne immaginato, ed erano almeno cinque anni fa, sembra che nessuno si sia posto quella domanda, dando per scontato che essendoci l’internet globale e avendo l’Italia una carenza di narrazione di se stessa verso l’esterno, un portalone fosse la strada da battere.  La risposta è no: non è sensato né possibile fare un sito unico perché l’offerta culturale, civile, artistica, enogastronomica, paesaggistica del nostro Paese è per fortuna così tanta e differenziata che nessuna guida del turista potrà mai soddisfarla, né sulla carta né sul web.  Non è sensato nemmeno dal punto di vista dell’internet, dove i contenuti di valore sono prodotti solo nella «catena corta», cioè dalle comunità, a partire dai luoghi e dai protagonisti.
È la stessa discussione che vive anche tra gli archivisti: seguire la tradizione settecentesca di un unico e centralizzato archivio nazionale oppure accettare e favorire il decentramento delle risorse, all’interno di una cornice di riferimento e di standard comuni? La strada più giusta è la seconda.

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La caverna dei sapori e dei saperi

Posted by franco carlini su 15 febbraio, 2007

editoriale
Franco Carlini
Il mese prossimo il governo norvegese comincerà a bucare la montagna nelle remote isole Svalbard, al circolo polare artico. Non è un insulto alla natura, ma un mezzo per proteggerla dato, che nel 2008, a lavori ultimati, la caverna, naturalmente refrigerata e protetta dalla radiazioni esterne, ospiterà la più grande banca di semi al mondo. Il progetto è realizzato insieme al Global Crop Diversity Trust, a sua volta appoggiato dalle Nazioni Unite. Banche dei semi ce ne sono molte per il mondo. Famosa quella di Aleppo in Siria, alla quale si è fatto ricorso per riportare le piante originali sulle colline dell’Afghanistan. Altrettanto nota è quella delle patate in Perù (è raccontata anche nel sito multilingue http://www.benettontalk.com). Il progetto norvegese vuol essere un ulteriore deposito di riserva, ben protetto da ogni disastro ambientale. Nel settembre scorso, per esempio, il tifone che ha colpito le Filippine ha sommerso di fango la locale banca dei semi. Cary Flower, il direttore del progetto, ne parla come di «un Fort Knox della vita». L’idea è buona e saggia e oltre a tutto non risulta nemmeno particolarmente costosa, solo 5 milioni di dollari; a regime richiederà un intervento umano minimo, salvo per la necessaria periodica sostituzione dei semi che non reggono il congelamento protratto, come nel caso dei piselli che perdono la loro capacità riproduttiva dopo 20 anni. Ma ovviamente conservare i semi non basta perché essi sono solo una faccia del problema, per così dire il materiale grezzo.
L’altra faccia essenziale è costituita dai saperi umani, tramandati per millenni, sovente in forma orale. E’ la sapienza contadina, il saper fare che permette di usarli al meglio, nei diversi ambienti. Senza di loro un immenso magazzino di piante potrebbe risultare illeggibile e inutilizzabile, così come lo sono certe banche dati, una volta che siano andati persi i linguaggi software per leggere le informazioni numeriche e la conoscenza del contesto in cui erano stati raccolte. Conservare queste conoscenze e se possibile svilupparle è compito ben più complicato, sociale e non tecnologico. Una volta che di una patata e del suo modo di coltivarla e cucinarla si sia persa memoria perché ormai tutti mangiano patatine Doritos, avere le piante originali serve a poco. E’ la conferma che la diversità biologica deve necessariamente accompagnarsi a quella linguistica e culturale.

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Al primo posto il retrobottega

Posted by franco carlini su 30 novembre, 2006

F. C.

Ma che ne è della partecipazione civica in rete, la cosiddetta e-democracy? E tutti i progetti di e-Gov? Secondo Beatrice Magnolfi, sottosegretario all’innovazione tecnologica,«una nuova fase» si impone e ci verrebbe voglia di chiamarlo e-Gov 2.0. Magnolfi, parlando lunedì a Pisa in una conferenza sull’argomento, ha proposto un bilancio del già fatto, non senza qualche sano criticismo. Nella pubblica amministrazione italiana ci sono 17 mila anni/uomo di attività informatiche, il che ne fa la più grande azienda IT del paese. E ci sono stati investimenti massicci, ma gli effetti, sia quelli reali che quelli percepiti dai cittadini, sono bassi. Come mai? Due, in sintesi i motivi. Il primo è l’attenzione prevalente data al front office, lo sportello in rete con le sue interfacce web, rispetto al back office, il retrobottega fatto di persone, procedure e database. Il risultato sono certamente moltissimi siti pubblici (praticamente tutti i comuni ce l’hanno), ma servizi e modalità di interazione poco conosciuti e poco soddisfacenti. Grandi portali, sovente rigonfi, quasi sempre poco usabili. Il secondo motivo, forse inizialmente inevitabile, è l’essersi mossi più per esperimenti pilota che per farne un sistema coerente. Degli exploit insomma, più che una sana e permanente attività di rete. Lo ha confermato l’assessore ligure al bilancio e alle tecnologia, G. B. Pittaluga: in genere si è assistit6o a una visibile sproporzione tra investimenti e risultati.

Magnolfi insiste: bisogna assicurare a tutto il paese una soglia minima di servizi e partecipazione online, ma insieme continuare a spingere e a incentivare le eccellenze. E ancora colmare i molti divari, sia regionali che culturali che limitano l’accesso ai servizi online. L’incontro pisano era dedicato alla e-partecipation, anche per fare il punto dei molti progetti cofinanziati dal precedente ministro all’Innovazione, Lucio Stanca. Molti hanno iniziato il loro percorso, ma come ha fatto notare Fiorella De Cindio dell’università di Milano, il punto debole è la scarsa convinzione di molte amministrazioni che considerano l’Internet e la partecipazione dei cittadini o come fiore all’occhiello, laterale, oppure, ciò che è peggio, come un disturbo. Andrà anche aggiunto che molti in passato hanno accentuato troppo l’aspetto tecnologico, rispetto a quello sociale, come nel caso di un programma «intelligente» destinato a tradurre in italiano le delibere scritte in burocratese, laddove, evidentemente, il problema era semmai il contrario, e cioè di insegnare ai funzionari a ragionare e scrivere come i cittadini. Quel programma per fortuna è stato lasciato cadere: anche lui si occupava solo dell’interfaccia e non agiva sui processi amministrativi retrostanti.

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I due partiti degli anti-partito

Posted by franco carlini su 29 novembre, 2006

Franco Carlini

Vittorio Mete dell’Università di Firenze ha analizzato in un recente articolo scientifico un paradosso che riguarda un po’ tutti i paesi occidentali, che consiste in questo: «da un lato, la democrazia

si estende e si consolida; dall’altro, i cittadini degli stati democratici sono sempre più insoddisfatti

per il funzionamento delle loro democrazie. Si tratta della cosiddetta sindrome del cittadino critico; un cittadino cioè che non mette in discussione il valore della democrazia, ma è insoddisfatto del rendimento del sistema democratico. Tale sindrome, peraltro, non sembra avere una natura passeggera e promette di diventare un aspetto fisiologico della vita democratica». E’ il fenomeno che sta alle radici delle varie esperienze di movimenti della società civile e probabilmente anche del favore raccolto dai leader (almeno un po’) antipolitici, come  

Il testo cui facciamo riferimento si trova sul sito della Società Italiana di Scienza Politica (http://www.sisp.it/sisp_convegnoannuale_paperroom_download.asp?id=501).ed è stato scritto partendo da un’indagini sugli atteggiamenti dei giovani cittadini europei, 8000 dei quali sono stati intervistati nell’ambito del progetto europeo Euyoupart).

Le categorie utilizzate (e sottoposte peraltro a vaglio metodologico critico) sono quelle degli anti-partitici attivi e degli anti-partitici passivi. Entrambi i gruppi hanno un atteggiamento fortemente critico verso la politica e soprattutto verso i partiti, ma si differenziano per le conseguenze che ne traggono. I primi (gli attivi) tendono comunque a impegnarsi politicamente, sia pure in forma invisibile e non tradizionale, nei movimenti come nelle comunità. I secondi invece traducono la loro critica alla politica in disinteresse. Il primo è un antipartitismo da protesta, il secondo da apatia.

Ai giovani intervistati venne chiesto di dire quanto concordassero con la seguente affermazione: « La politica è fatta solo di promesse vuote». La scala dei valori andava dal «fortemente d’accordo» al «fortemente in disaccordo».

I risultati del sondaggio ci dicono alcune cose, una ovvia, che gli «antipartitici passivi»sono più numerosi degli «antipartitici attivi», il che è ragionevole: gli attivi infatti disistimano i partiti, ma credono alla politica e sanno mobilitarsi su opzioni radicali (sia di destra che di sinistra); nei passivi invece sfuma, fino all’indifferenza, la distinzione destra-sinistra. La seconda, a scala europea, dice comunque che l’Italia è tra i paesi europei dove la percentuale di antipartitici è più bassa. Solo il 15,9 su cento, contro il 52,4 dell’Inghilterra e il 31,1 della Germania.

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