Chips & Salsa

articoli e appunti da franco carlini

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Le sinistre frontieres di quel reporter

Posted by franco carlini su 28 agosto, 2007

Il manifesto, pag. 1

«Se avessero preso in ostaggio mia figlia, non ci sarebbe limite alcuno, ve lo dico e ve lo ripeto,all’uso della tortura». Per salvarla ovviamente. D’altra parte, aggiunge, è quello che fece la polizia del Pakistan, in occasione del rapimento del giornalista Daniel Pearl del Wall Street Journal. Per cercare di liberarlo in tempo, arrestarono e torturarono i familiari dei rapitori anche se a nulla servì e il giornalista venne non solo ucciso ma letteralmente fatto a pezzi.
A sostenere la possibilità della tortura, persino di innocenti familiari non coinvolti, è stato di recente Robert Ménard, fondatore e segretario generale di Reporters San Frontières, la Ong internazionale che si batte per la libertà di stampa e di espressione, contro i regimi censori e autoritari.

Quelle cose Ménard le ha dette nel canale radiofonico France Culture il 16 agosto scorso, all’interno di un dibattito sulla gestione trasparente degli ostaggi, insieme ad altri giornalisti. Il registrato è stato riproposto ieri dal giornale online Rue89.com, sempre attento e combattivo. Nell’occasione Ménard sosteneva che a quel punto non è più una questione di idee o di principi, ma di guerra. Dice di averne parlato con la moglie di Pearl (in occasione del lancio del film «A Mighty Heart» di Whinterbottom, su di lei e suo marito) e che «bisognava assolutamente salvarlo e se era necessario prendere un certo numero di persone, prenderle fisicamente, avete capito, minacciandoli e torturandoli»

Ménard ha espresso la sua opinione in maniera problematica, ma senza dubbio una frontiera l’ha voluta passare, che non è quella della libertà, ma quella della disumanità. E non basta a giustificarlo l’orrore del terrorismo sanguinario, né il nobile scopo di salvare delle vite. A prezzo di quali vite e di quali altre disumanità? Più sensati di lui, gli americani contro la tortura sono invece riusciti a far dimettere il ministro della giustizia Alberto Gonzales, mentitore e reticente su Guantanamo e Abu Graib.

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Giornalista soltanto io

Posted by franco carlini su 24 agosto, 2007

editoriale

 

F. C.

Questo non è giornalismo. Lo sostiene un editoriale del Los Angeles Times, in polemica con l’ultima iniziativa di Google. Il popolare motore di ricerca ha annunciato che presto tutte le notizie che compaiono su Google News (http://news.google.com) saranno commentabili dai lettori. Oggi questa forma di aggregazione di news crea una sorta di giornale automatico, pescando i titoli e i relativi link da migliaia di fonti online. Ma presto chi legge potrà dire la sua, in questo modo arricchendo dal basso questa specie di «testata» anomala. Google News è solo indirettamente una forma di giornalismo, dato che a monte ci sono dei giornali veri, di carta o di rete, non importa, e dei giornalisti veri. Ma l’impacchettamento è automatico, realizzato da qualche segreto algoritmo, che genera un prodotto un po’ strano, di solito persino troppo ovvio e senz’anima. Ma non è questa la critica avanzata dal giornale di Los Angeles; l’editoriale sostiene che aprire la strada alle osservazioni dei lettori, singoli o organizzati, significa implicitamente ammettere che le notizie fornite sono incomplete e non adeguate (anche se derivano da migliaia di fonti, le più diverse), mentre il «buon giornalismo» consiste invece nel saper porre le domande giuste invece che limitarsi ad aggregare le news altrui, pur se aprendo il forum a qualsivoglia commento. Per questa strada, suggerisce il quotidiano, si rischia di avere molti commenti fuori tema, spazzatura, divagazioni, come del resto succede in moltissimi luoghi della rete aperti al pubblico. Il rischio c’è, e chiunque frequenti i forum dei grandi quotidiani italiani, avrà notato che essi spesso rigurgitano di espressioni del pensiero fazioso, dove la passione partigiana spinge più a schierarsi (e a insultare i nemici) che ad argomentare. È senza dubbio un limite costitutivo di questa forma di partecipazione, che peraltro può essere limitato da una gestione redazionale insieme attenta e propositiva: il ruolo dei moderatori intelligenti dei forum non sta tanto nel censurare, quanto nel coordinare, variamente interloquire senza prevaricare. Perché allora tanto nervosismo?

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Gli alberi della conoscenza

Posted by franco carlini su 24 agosto, 2007

 

Quando la tecnologia può essere salvezza. Viaggio nelle foreste pluviali dell’Africa
Nel cuore intatto del Congo, una storia intrecciata fra i signori del legno, satelliti e radio che informano la comunità locale sui loro diritti contro le multinazionali e una certificazione necessaria al mercato

Patrizia Cortellessa

Costa d’Avorio, Gabon, Camerun e Repubblica Democratica del Congo. Vi si trovano i due terzi delle residue foreste intatte dell’Africa e in questo Eldorado si sono aperte innumerevoli prospettive di sfruttamento per molti. Ma a guadagnarci non sono certo le comunità indigene che in quel territorio vivono. Venti milioni di foresta congolese – secondo Greenpeace – sono già state «concesse» – per lo più illegalmene – ai signori del legno. L’ articolo di Michael Hopkin, pubblicato sulla rivista Nature del 26 luglio scorso, (Conservation: Mark the rispect) ci porta proprio nella foresta pluviale del Congo, martoriata da sempre dal saccheggio operato dalle multinazionali, in particolare quelle del legname. Per raccontarci una piccola storia su come la tecnologia, in qualche modo, stia venendo in aiuto a una piccola comunità pigmea. In questa parte di foresta – scrive Hopkin – vivono i Mbendjele, una popolazione di 3 mila persone circa. Da circa un anno l’uso della tecnologia sta permettendo a questi abitanti della foresta di preservare almeno gli alberi più importanti.
Il progetto, avviato un anno fa, spinto da quegli scienziati, tecnici, ma soprattutto attivisti che da sempre si battono contro la distruzione della foresta (e anche contro l’industria del legname in questione), vede in questo caso la «collaborazione» della multinazionale del legno che ha la concessione governativa su quel territorio. La Congolaise Industrielle Des Bos (Cib), che ha deciso di «venire incontro» (atto più che dovuto) ad alcune loro esigenze. Anche perché (o soprattutto?) sembra che sempre più consumatori nel mondo richiedono che il loro legno e la loro mobilia arrivi con tanto di bollo di approvazione del Forest Stewardship Council (o Consiglio per la Gestione Forestale Sostenibile). L’Fsc è l’ organizzazione internazionale non governativa nata nel 1993 per iniziativa di un gruppo di associazioni ambientaliste (tra le quali Greenpeace), industrie del legno, produttori forestali, tecnici forestali che preoccupati per la distruzione delle foreste, volevano passare ad azioni concrete per la loro conservazione.
Ma per farsi certificare dall’Fsc bisogna rispettare alcune regole. Uno dei principi e criteri che le industrie del legno devono seguire è proprio la relazione con la comunità locale. Non c’è bisogno di ricordare che da sempre sono gli abitanti della foresta a pagare il prezzo più alto alle multinazionali del legname. Che arrivano, senza preavviso ma con carte firmate dal governo. Minacciano i villaggi, costringendoli a sottoscrivere contratti-capestro. Promettono scuole, ospedali, infrastrutture, di cui resterà appena qualche tettoia fatiscente. Quando se ne vanno, la foresta è compromessa, attraversata da una fitta rete di strade che la rendono accessibile a ogni invasione.
Finora le popolazioni locali non avevano mai potuto esprimersi sul taglio degli alberi della loro foresta. Almeno in questo caso invece, possono decidere di salvaguardarne alcuni, «segnando» quelli più importanti per la difesa della loro identità . La differenza di importanza fra le varie zone – per esempio quelle usate dai pigmei per la caccia, per riunioni sociali, per le riunioni religiose – viene poi monitorata dall’azienda attraverso l’uso di Gps, i rilevatori satellitari, con un terzo del tempo che occorrerebbe con un tracciato tradizionale. Ma il ricorso alla tecnologia non è una cosa nuova.
L’uso dei satellite per osservare le crisi, ad esempio, si sta diffondendo sempre più. Qualche mese fa il nuovo capo dei Surui, tribù indigena dell’Amazzonia, strinse un patto con Google al quale chiese che Google Earth venisse utilizzato per monitorare i 248mila ettari della loro riserva. In caso di nuove devastazioni ci sarebbe stato così il tempo di una denuncia pubblica.
Il progetto in questione prevede anche una stazione radio per comunità pigmea Mbendjele, per ora ancora in fase preliminare. Attraverso la radio – con quartier generale a Pokola – i Mbendjele riescono a sapere i loro progetti, e come e quando devono segnare gli alberi. Anche se per ora soltanto alcuni programmi-pilota sono stati realizzati, la radio a modulazione di frequenza Na Bisso è riuscita a trasmettere per sei ore al giorno, in radiodiffusione musica e notizie utili alla comunità. Grazie a questo progetto e l’interagire con le comunità locali, dal 2006 intanto la Cib ha guadagnato la certificazione Fsc per una delle cinque zone su cui hanno la concessione. Diverso il discorso per l’altro programma in cantiere: l’apertura di una segheria a Loundoungou, che Greenpeace ha condannato, giudicandola «inaccettabile».

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Modestamente web

Posted by franco carlini su 24 agosto, 2007

nuove tendenze

 

E’ l’ora della modestia, ragazze. Anche sul web, anche nell’abbigliamento. Otto anni dopo il suo primo libro assai fortunato e assai discusso, Wendy Shalit torna alla carica. Allora pubblicò «Un ritorno alla modestia: la riscoperta della virtù perduta», mentre ora è la volta, sullo stesso tono e nello stesso stile tra il mormone e il vittoriano, di «Girls Gone Mild» ovvero come «le giovani donne reclamano il rispetto di sé e scoprono come non sia poi così male essere buone». Se ne sentiva il bisogno, dopo tanto abbigliamento aggressivo, ombelichi al vento, bevute esagerate e soprattutto sesso troppo libero. Per quanto piccolo si tratta di un vero movimento, che nel web trova di che nutrirsi di sentimenti virtuosi. Il punto di partenza, obbligato, è il sito della stessa Wendy, http://www.modestyzone.net, che a sua volta rilancia verso un blog di gruppo, «modestamente vostre», http://www.modestlyyours.net, redatto da venti donne venti, unite dal fatto che nella loro vita, pubblica e privata, praticano e pubblicizzano la modestia femminile. La tendenza alla modestia peraltro si fa anche commercio. Ecco dunque http://www.dressmodestly.com che dallo stato mormone dello Utah propone delle magliette e persino dei toppini, rigorosamente lunghi, dai colori tenui e delicati. Pochi prodotti e scadenti: molto meglio, allora, http://www.purefashion.com, il cui scopo morale è di guidare le giovani donne tra i 14 e i 18 anni a «diventare delle leader confidenti e competenti che vivono la virtù della modestia e della purezza». L’organizzazione vende abiti che sono «eleganti ma non provocatori, alla moda ma di buon gusto». Soprattutto organizza corsi e seminari, anche per le future modelle ispirate alla modestia.

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Di chi è la Croce Rossa

Posted by franco carlini su 24 agosto, 2007

marchi contesi

 

marina rossi

Il colosso mondiale della farmaceutica e dei prodotti medicali Johnson & Johnson ha iniziato una causa legale contro la Croce Rossa statunitense. Il motivo scatenante è stata la nascita di una linea di prodotti per l’igiene personale, creata dall’organizzazione non profit. Nel 1895 le due parti avevano stretto un accordo che permetteva alla Croce Rossa di utilizzare il marchio registrato della croce per scopi esclusivamente umanitari. Nessun conflitto di interessi, quindi, finora. Ma la Croce Rossa statunitense ha recentemente messo in vendita un kit di primo soccorso per sensibilizzare i cittadini a tempestive cure in caso di disastro; i ricavati vengono investiti in scopi umanitari. Dal punto di vista dell’azienda, invece, si tratta non solo di concorrenza, ma soprattutto di una doppia presenza dello stesso marchio. La risposta della Croce Rossa è stata immediata e diretta: «È osceno il comportamento di un’azienda multimiliardaria nei confronti di un organo umanitario come il nostro», ha dichiarato il portavoce Mark Everson. Johnson & Johnson, nata nel 1886 come azienda farmaceutica, si occupa oggi di prodotti di cura per il corpo, dallo shampoo ai prodotti per neonati, fino ad articoli per la medicazione come bende e cerotti; detiene centinaia di brand. Ed è proprio la linea di prodotti Red Cross che riguardano il primo soccorso ad avere come simbolo – da oltre un secolo – una croce rossa. Poco importa, dunque, se la causa legale coinvolge uno tra i più conosciuti organi di volontariato: Red Cross è un marchio registrato dall’azienda, sui cui detiene l’esclusiva. Anche sul sito ufficiale Johnson & Johnson, viene continuamente evidenziata la proprietà del nome: il simbolo di marchio registrato è sempre presente accanto alla linea di prodotti. Ora tocca agli avvocati, come al solito gli unici a guadagnare.

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Dvd dannosi per i più piccoli

Posted by franco carlini su 24 agosto, 2007

multimedia

 

francesca martino

I Dvd educativi pensati per bambini piccolissimi – tra gli 8 e i 16 mesi – non hanno alcun effetto positivo sullo sviluppo delle capacità verbali e di comprensione. Anzi, ci sono seri timori che possano invece rallentare lo sviluppo dei piccoli. Questo il risultato di uno studio americano pubblicato dal Journal of Pediatrics e condotto su un campione casuale di più di mille famiglie. Ai genitori è stato chiesto quante parole in media conoscessero i loro bambini e se (e quanto) guardassero i video in televisione. Il risultato statistico è che nell’età tra gli 8 e i 16 mesi – quella in cui il bambino comincia a imparare a parlare – per ogni ora passata giornalmente davanti al video i bimbi imparano 7-8 parole in meno rispetto a i loro coetanei che non guardano per niente la televisione. Lo scopo del test era di valutare la reale efficacia dei software e Dvd pubblicizzati come educativi e stimolanti. Risulta invece che sono poco utili e che anzi, in dosi massicce, risultano addirittura negativi. La spiegazione secondo i pediatri è semplice: il bambino a quell’età dispone di una quantità fissa di ore in cui è sveglio e recettivo e queste non sono molte. Se vengono impiegate in attività inutili per l’apprendimento, ne consegue «matematicamente» che per imparare a parlare impiegherà più mesi. Su bambini più grandi non sono stati provati danni né benefici dall’uso dei video educativi. In realtà si conferma ancora una volta che la cosa migliore per la crescita intellettiva dei piccoli sia la normale vita familiare in compagnia di adulti e di altri bambini.
Il bambino apprende il linguaggio attraverso l’interazione diretta, a tu per tu. Il modo di parlare che istintivamente si adotta quando si comunica con un piccolo – voce dolce, cantilenante, accompagnata da accentuate espressioni del viso – rimane il più valido.

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Non è tutto sociale quello che web

Posted by franco carlini su 24 agosto, 2007

 

In «Republic. com 2.0», Cass Sunstein (università di Chicago) analizza, preoccupato, gli sviluppi dei blog e dei social network Una analisi di quel che, grazie a Internet, sembra essere un «mercato perfetto» dell’informazione e dell’intrattenimento

Franco Carlini

I social network rischiano di relegare i partecipanti delle singole community e di isolarli dagli stimoli di realtà diverse. Il paradosso del web sociale è la sua mancanza di pluralismo e di contraddittorio. L’ultimo saggio di Cass Sustein – Republic.com 2.0 – ne illustra le dinamiche.
All’apparenza, grazie all’internet, quello dell’informazione e dell’intrattenimento è finalmente un «mercato perfetto», sia sul fronte della produzione che su quello della distribuzione. Chiunque infatti può produrne a bassissimo costo, senza ricorrere ad agenzie di intermediazione, e se è bravo avrà successo; viceversa la rete globale permette a ognuno di trovare tutto quanto gli piace e solo quello, dalle migliori musiche del Burkina Faso alle ricette di cucina a base di fragole. C’è spazio per tutti, grazie al fenomeno della «Long Tail» (ben descritto nel saggio La Coda Lunga di Chris Anderson, Codice edizioni). Vale per musica, romanzi, film, così come per le notizie, anche per effetto del crescere impetuoso del giornalismo iperlocale, grazie al quale chiunque può sapere come sono andate le feste di fine anno scolastico nella più piccola delle contee americane. Eccetera, eccetera, in abbondanza e sovrabbondanza.
Ma è davvero tutto così bello e meraviglioso? Non c’è alcun problema? I problemi ci sono, e non sono pochi. Molti intellettuali tradizionali, ultimo Giorgio Bocca sull’Espresso, lamentano l’eccesso di informazione: già il fatto che sia troppa è un bel guaio, cui si aggiunge che spesso è poco affidabile, diventando solo noise, rumore.
Ha scritto Bocca sul numero del 2 agosto: «Dietro la moltiplicazione, l’invasione, l’infatuazione delle macchine non si vede una crescita delle conoscenza, una maggiore pienezza di vita, ma un soffocamento della fantasia, un nozionismo invadente. L’uso generalizzato di un archivio colossale come internet che vantaggi dà se non il moltiplicare notizie e conoscenze vecchie e mal digerite?». Questa è un’obiezione classica, che è sempre stata avanzata in occasione di ogni salto delle tecnologie della comunicazione, fin dai tempi della stampa a caratteri mobili di Gutenberg. Ogni volta scatta l’angoscia, ogni volta si percepisce che lo scibile umano non è più riconducibile a pochi testi o enciclopedie e che occorre imparare a gestire l’abbondanza delle idee con nuovi strumenti, pratici e concettuali (tale è il tema di un recente saggio di Alex Wright, Glut: Mastering Information Through the Ages che ripercorre il tema dell’information overload attraverso i secoli e il sogno di un sapere universale).
A questo problema la rete offre oggi molte soluzioni, sia tecniche che sociali, e sono tutte all’insegna dei filtri. Filtri non per censurare, ma per scegliere. Sono tali i motori di ricerca, che offrono un sottoinsieme delle pagine web in risposta alla query (domanda) fatta dall’utente attraverso delle parole chiave. Ma non sono gli unici utensili: il sistema degli Rss Feed permette al lettore di selezionare le fonti cui abbeverarsi quotidianamente, per esempio, dall’Economist, tipico settimanale generalista, solo le notizie di Scienza e Arte, e da Endgadget solo quelle sui cellulari, e via selezionando.
Ci sarà anche chi fa ricorso a uno dei diversi siti che aggregano in proprio le notizie, pescando da migliaia di fonti, e le suddividono per categorie: tipico Google news, ma anche Individual.com oppure Reddit.com. Infine ci sono le versioni più o meno spinte di giornale personalizzato, che fu un sogno-proposta di Nicholas Negroponte, il cosiddetto MyJournal. E’ una possibilità che diversi siti e testate offrono da tempo, anche il prestigioso Wall Street Journal: ogni lettore compone una sua prima pagina individuale, che mette in evidenza gli argomenti che gli interessano e solo quelli; ogni copia del giornale online è dunque diversa da quella di ogni altro lettore.
Non è meraviglioso? Non è il trionfo dell’estrema libertà e personalizzazione dei consumi? La tendenza percorre tutti i media, non solo quelli internet; palinsesti personalizzabili offrono le tv, magari attraverso apparecchi dedicati alla bisogna, come Tivo (un videoregistratore su hard disk, dove prenotare gli spettacoli e i canali da registrare).
Ma qui nasce un nuovo problema, che uno studioso americano, Cass Sunstein dell’università di Chicago, ha già affrontato nel 2001 con il suo libro Republic.com e che ora ripropone, in versione aggiornata agli ultimi sviluppi dei blog e dei social network. Il titolo, persino un po’ troppo ovvio è Republic.com 2.0. La sua preoccupazione, del tutto condivisibile, è questa: una tale perfetta possibilità da parte di ognuno di selezionare quanto gli interessa e di escludere tutto il resto genera una pericolosa frammentazione della sfera pubblica che a sua volta si riflette negativamente sull’idea stessa di democrazia e di libertà di espressione. Il Daily Me o il My Journal, rinchiudono ognuno nel guscio dei suoi interessi attuali, senza esporlo mai ad altre informazioni e ad altri punti di vista. Così avviene spesso anche per i forum, i blog, le comunità: frequentare solo i luoghi dove si sa a priori che la pensano come noi può essere tranquillizzante e gratificante. Allineare il proprio sito a quelli simili è utile e fa comunità. Ma può anche accecare e limitare.
Al contrario, sostiene Sunstein, un ben congegnato sistema della libertà di espressione dovrebbe rispondere a due requisiti. Primo: «Le persone devono essere esposte a materiali (notizie e punti di vista, ndr) che non hanno scelto in anticipo. Degli incontri non pianificati, non anticipati, sono un elemento essenziale della democrazia». È la differenza che corre tra il frequentare un club chiuso (di tifosi di una squadra, di appassionati di arte digitale, di cultori di una sottocorrente del buddismo) e invece circolare per le piazze e negli angoli di strada, dove si incrocia, e magari si dialoga con altra umanità. È la differenza tra coltivare l’identità in maniera esasperata e lasciarsi coinvolgere dalla diversità. Questo atteggiamento, da strada e piazza pubblica, è un potente antidoto a razzismi, settarismi ed estremismi.
Secondo: è utile e opportuno che «molti cittadini condividano delle esperienze. Senza esperienze condivise una società eterogenea avrà una difficoltà molto maggiore nell’affrontare i problemi sociali. Le persone possono trovare difficile capirsi gli uni con gli altri». Questo aspetto di piattaforma comune di informazioni è stata la grande caratteristica virtuosa della stampa quotidiana generalista: offre a ogni comunità, a diverse scale di grandezza, dal comune alla nazione, un contesto a partire dal quale stare assieme, ma anche se del caso discutere e litigare civilmente. È una condizione essenziale della democrazia. E non si tratta solo dei grandi fatti della politica: anche la cronaca nera e bianca, i nati e i morti, sono il tessuto comune che i quotidiani tradizionalmente offrono. È una funzione di collante (glue) sociale. In questo essi sono favoriti dalla loro struttura fisica, che obbliga a sfogliare: per arrivare alle pagine dell’amato sport uno è costretto a muovere i fogli e lo sguardo magari gli cadrà sul Darfur o sul riscaldamento globale: viene «esposto», appunto ad altri temi e problemi, e va a vedere che non si soffermi.
Se questi due elementi – l’esposizione e la condivisione di esperienze – vengono a mancare perché ogni individuo si costruisce il proprio media personale, le sue «camere ad eco» che appunto echeggiano le sue preferenze e i suoi punti di vista predeterminati, allora sono guai.
Il rischio segnalato da Sunstein è reale e già presente nelle nostre società, anche indipendentemente dalle tecnologie digitali, e non basta esorcizzarlo sostenendo che tanta informazione, anche se frammentata, è comunque un progresso. Ciò è vero, è sempre vero, ma non basta. Questi sono tempi di informazione sovrabbondante e dove, contemporaneamente, l’attenzione è la risorsa scarsa. Per questo «il filtraggio è un fenomeno inevitabile, un fatto della vita». Ma altrettanto utile è continuare ad alimentare e a valorizzare i luoghi della diversità e del libero confronto. Anzi proporsi esplicitamente di costruirli.

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L’ora degli aggregatori

Posted by franco carlini su 24 agosto, 2007

Addio stampa locale, è l’ora degli «aggregatori» (ma le radio resistono)

Uno studio di Harvard University esplora la popolarità delle fonti di news online

Valentina Tubino

Un report della Harvard University ha preso in esame i visitatori di 160 siti americani di informazione tra quotidiani, network televisivi e radio: i giornali locali perdono visitatori rispetto alle testate più importanti, mentre resistono le piccole radio e spopolano gli aggregatori.
Lo studio, intitolato «Creative Destruction: An Exploratory Look at News on the Internet» esplora la popolarità delle fonti di news online, con uno sguardo particolare all’andamento dei giornali web locali, è stato realizzato avanti dal Centro Joan Shorenstein rivolto alla stampa, alla politica e agli affari pubblici e finanziato dalla Carnegie Corporation di New York. Sono stati presi in esame 160 siti di news nell’arco di un anno. I risultati sembrano evidenziare che, negli Usa per lo meno, gli utenti web in cerca di notizie stanno cambiando rotta: sempre maggiore è l’afflusso alle grandi sorgenti di informazione mentre vengono lentamente trascurate le testate locali. Secondo il Professor Thomas Patterson, del Centro Shorenstein, «con l’aumento dell’uso di internet come fonte di informazione, l’audience dei vecchi media è diminuita proporzionalmente». Vanno bene i siti dei quotidiani più popolari e venduti a livello nazionale, come New York Times, Washington Post e USA Today, con un incremento medio di visite del 10 per cento rispetto all’anno precedente. Perdono lettori invece i giornali locali, sia testate di città grandi, sia di città medie o piccole.
Ancora maggiore è il successo dei siti web di colossi televisivi come Cnn, Abc, Cbs, Nbc, Msnbc e Fox, che in 12 mesi hanno richiamato un buon 30 per cento in più di visitatori. Ma in questo caso le piccole radio e tv locali tengono testa, incrementando le utenze, anche se a un ritmo ovviamente più contenuto.
La sorpresa più grande però è il boom delle fonti non tradizionali, degli aggregatori e dei blog, vera novità dell’informazione online. I siti che pubblicano news tratte, adattate, interpretate o semplicemente linkate da altre fonti online hanno ottenuto, nell’ultimo anno, un ampio favore di pubblico. I nomi che più di tutti minacciano il dominio delle grandi testate giornalistiche americane sono Google, Yahoo, Aol e Msn, ma anche siti che usano software per monitorare e pubblicare in modo semi-automatico le notizie come Newsvine, Topix, Digg e Reddit. Per esempio, negli ultimi dodici mesi, gli utenti unici mensili di Digg, sono cresciuti da 2 milioni a oltre 15 milioni. Inoltre, gli aggregatori di informazione registrano in media circa 100 milioni di visitatori mensili, contro i 7,4 milioni dei principali network televisivi americani. Secondo Nancy Palmer, direttore esecutivo del Shorenstein Center, «il declino degli utenti di testate e televisioni locali corrisponde a una perdita potenziale di informazione».

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Business dei blog, giornalismo dal basso

Posted by franco carlini su 24 agosto, 2007

 

Blogosfera L’incontro fatale tra blog e affari. Sulla scia degli oltre 70 milioni di diari in rete nel mondo

Sarah Tobias

Prima o poi doveva succedere: poiché il mondo dei blog attrae sempre di più l’interesse del business, ecco il primo evento, americano e mondiale al tempo stesso, dedicato alla blogosfera. Si svolgerà l’8 e 9 novembre a Las Vegas, città ideale per le grandi convention (qui si teneva il famoso Comdex, salone mondiale dell’informatica). Si chiama BlogWorld & New Media Expo e il suo scopo è di «promuovere la dinamica industria del blogging e dei nuovi media». Si annunciano 50 seminari e «lezioni» da parte dei più rappresentativi esponenti del settore. L’incontro arriva in un momento in cui vanno crescendo una certa delusione e molti criticismi sui blog: malgrado le statistiche più che lusinghiere, c’è chi sostiene che si «blogga di meno» e che comunque questo sottoinsieme del web è eccessivamente ripieno di materiali insignificanti.
I più feroci nei confronti dei blogger sono i professionisti dell’informazione che rivendicano a sé il valore dell’autorevolezza e della professionalità nella produzione di notizie e analisi. Al tempo stesso la blogosfera è divenuta un terreno di caccia prezioso per gli stessi giornalisti che qui pascolano per scovare in anticipo punti di vista e tendenze significative. In ogni caso le statistiche più recenti, riportate dal sito del convegno (www.blogworldexpo.com/) sono queste:
sono 12 milioni gli americani che hanno un proprio blog, a fronte di 147 milioni che usano l’internet;
57 milioni di questi leggono i blog;
1,7 milioni in qualche modo fanno soldi con i blog, per esempio con la pubblicità ad essi associata;
in un campione di aziende intervistate l’89 per cento pensa che nei prossimi cinque anni essi saranno sempre più importanti.
Secondo il motore di ricerca Technorati, specializzato nello schedare i contenuti della blogosfera, i blog esistenti al mondo sono circa 70 milioni, ma la stima è probabilmente per difetto, anche perché ogni giorno si valuta che ne vengano creati 120 mila ex novo. Il 51 per cento dei lettori di blog fanno anche acquisti online, il che spiega l’interesse del business per questo fenomeno. I lettori dei blog passano online in media 23 ore alla settimana, ovvero più di tre ore al giorno.
***
Un fenomeno parallelo è quello del giornalismo dal basso e partecipato (citizen journalism, grassroot journalism). Per una fase, nei mesi scorsi, esso è sembrato la nuova frontiera dell’informazione e molti esperimenti sono stati avviati. Ecco alcuni esempi poco noti, per una volta non americani:
NowPublic (www.nowpublic.com) è un sito partecipativo nato a Vancouver in Canada, che ha raccolto investimenti per 10,6 milioni di dollari. Viene alimentato da 170 mila reporter spontanei in 140 paesi. Il suo fondatore, Leonard Brody, ha dichiarato: «Abbiamo capito che c’era bisogno di un nuovo tipo di agenzia capace di raccogliere, organizzare e distribuire l’informazione». La speranza è di diventare la prima agenzia di stampa al mondo. Collegandosi a NowPublic si vedono le notizie emergere una dopo l’altra, sia pure in maniera caotica (felicemente caotica): la pagina elenco si anima in continuazione di fatti minuscoli, di immagini appena aggiunte, di rilanci da altre fonti.
Agoravox (www.agoravox.com) è un caso europeo, nato in Francia nel 2005 per iniziativa di Carlo Revelli e Joël de Rosnay. Conta su 956 autori-giornalisti e 1,2 milioni di visitatori. Revelli è ben consapevole che non tutti possono essere giornalisti e quindi propone un modello di giornalismo civico leggermente diverso: la redazione propone dei temi e delle inchieste, che un redattore centrale coordina, raccogliendo in contributi dal basso.
Rue89 è anch’esso un quotidiano francese (il manifesto ne ha parlato nelle settimane scorse), creato da un gruppo di giornalisti professionisti usciti da Libération per tentare una strada nuova, più dinamica e libera. In questo caso il modello, attivo dal maggio scorso, è misto perché cerca di mettere a frutto il contributo di tre popolazioni: i giornalisti di mestiere, gli esperti e i cittadini. A questi ultimi si rivolge così: «Voi siete i migliori testimoni della vostra attualità. Spediteci le vostre informazioni e i vostri link preferiti. Contattateci per proporre articoli, foto e video». I lettori sembra stiano crescendo significativamente, gli argomenti coperti sono tutti quelli di un vero quotidiano generalista, con sezioni anche in inglese (Street89) e spagnolo (Calle89) e per settembre è prevista una nuova versione.

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Le spie si danno appuntamento sul web

Posted by franco carlini su 23 agosto, 2007

FRANCO CARLINI

La primizia viene dal Financial Times: le 16 diverse agenzie americane di spionaggio utilizzeranno una rete sociale – un social network – analogo, come struttura e prestazioni,  ai più famosi MySpace e Facebook. Lo ha deciso la Direzione della National Intelligence (Dni), un superorgano che coordina la raccolta delle informazioni relative statunitensi. Il network si chiamerà A-Space, dove la A indica la comunità degli analisti. La mossa è in coerenza con altre scelte di sistemi web da parte dei servizi. Già nei mesi scorsi la Dni aveva installato un servizio analogo al famoso Del.icio.us, che permette di condividere in comunità i link che ognuno ritiene interessanti; e aveva creato Intellimedia, ispirato alla nota enciclopedia online Wikipedia, dove le singole voci possono essere scritte e rieditate da tutti i partecipanti. Naturalmente si tratta di servizi chiusi e riservati agli addetti ai lavori spionistici. Il nuovo A-Space giunge a completare l’opera, nel senso che si dovrebbe presentare come un aggregatore delle informazioni e di punti di vista, anche soggettivi, tra i membri delle diverse agenzie. Queste scelte derivano anche dalla consapevolezza, fattasi più acuta dopo l’11 settembre, che molto spesso le informazioni ci sono, ma non arrivano alle persone giuste: un intreccio di burocrazie e di gelosie le ha rese segregate e poco usabili. Il web è dunque la soluzione a tutti i problemi? C’è da dubitarne, ma esso contiene un difetto e un vantaggio. Lo svantaggio è la sua non sistematicità. Il vantaggio è di essere per sua natura più fluido e meno gerarchizzato, poroso e orizzontale. Il problema generale è quello della diffusione della conoscenza, sia essa scientifica, sociale o spionistica (come in questo caso), quando essa è per sua natura sparpagliata e complessa, anziché ordinata e classificata. In fondo anche Robert Redford, nei «Tre giorni del Condor» passava il suo tempo a leggere romanzi, per cogliere tendenze internazionali ancora sotterranee.

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