Chips & Salsa

articoli e appunti da franco carlini

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Archive for 7 giugno 2007

Profitti da povere asimmetrie

Posted by franco carlini su 7 giugno, 2007

F. C.

Il mercato delle auto usate è l’esempio ormai classico di asimmetria informativa: il venditore sa quali sono buone e quali catorci, ma i prezzi esibiti, a differenza di quanto sosterrebbe la teoria, non convogliano un’informazione affidabile sul valore delle diverse merci. George Akerlof, Michael Spence e Joseph Stiglitz ebbero il premio Nobel per l’economia nel 2001 per le loro ricerche sui mercati con tali asimmetrie. A sua volta, per colpa del mercato delle auto usate, Roxanne Tsotsie di Albuquerque,  ha avuto di recente l’onore della copertina del settimanale Business Week. La trentenne madre di 4 figli, di origine Navajo, nel 2005 acquistò una Saturn usata con più di 100 mila miglia al prezzo di 7.922 dollari. Facendo parte delle classi di reddito inferiori (15 mila dollari all’anno) Roxanne era favorevolmente stupita che il rivenditore, la catena Byrider, le facesse credito senza problemi. Solo dopo scoprì che stava pagando più del 24 per cento di tasso di interesse, non riuscì a stare dietro alle rate mensili, rivendette l’auto e si trovò ad aver perso i 900 dollari già incassati dalla  Byrider. Fenomeni del genere sono stati analizzati anche in Italia nella trasmissione Exit de La7, condotta da Ilaria D’Amico. Secondo la rivista americana, questo è il fiorente «Business della povertà»: se in precedenza banche e aziende puntavano quasi esclusivamente sugli affluenti, ora hanno scoperto che anche con gli indigenti si possono fare ottimi profitti. Nel caso delle auto usate, chi vende dà per scontato che molti non pagheranno, ma si riprenderà l‘auto e terrà quanto già incassato. Un altro settore è quello dei rimborsi fiscali: chi abbia bisogno urgente di liquidi e abbia maturato dei crediti con il servizio statale delle imposte, trova gentile accoglienza in società che anticipano loro i rimborsi, ovviamente in cambio di una elevata percentuale strozzina. In questo caso si sfrutta anche la scarsa competenza di regole e norme dei contribuenti perché in America i rimborsi sono assai solleciti. Dunque sono all’opera contemporaneamente due meccanismi: l’asimmetria tra chi sa e chi non sa, e l’esplorazione di mercati di nicchia in precedenza trascurati. Capitalismo creativo.

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La metafora delle mele marce

Posted by franco carlini su 7 giugno, 2007

FRANCO CARLINI

 

Che si tratti di poliziotti che pestano un po’ troppo gli arrestati, di amministratori pubblici corrotti, o di preti che abusano di bambini, la metafora con cui le rispettive istituzioni si difendono dalle polemiche è quella delle «mele marce»: un numero limitato di casi negativi non può essere usato per dilatare il giudizio all’intero corpo. Il che è giusto. Ma questa difesa statistica elude due problemi. Il primo è «come mai si generano delle mele marce?» Non basta in questi casi invocare le fluttuazioni del caso perché la marcescenza è un fenomeno che ha le sue cause  precise: l’evoluzione l’ha inventata per far sì che i frutti, scoppiando, lascino cadere a terra i semi, generando altre piante. Chi invece voglia cibarsi di quei pomi, dovrà staccarli prima dagli alberi, magari anche un po’ acerbi, e conservarli in locali con temperatura e umidità adeguate. Il coltivatore che si trovi con molte mele marce dovrebbe dunque chiedersi come si è organizzato e che cura ha preso di loro, in che ambiente le ha messe e se per caso non è intervenuto troppo tardi, quando il processo era già in atto. La stessa domanda dovrebbero porsi i rappresentanti delle istituzioni criticate: qual è la selezione che hanno fatto dei loro membri e quale formazione hanno loro offerto. «Questi individui non avrebbero mai dovuto diventare preti» ha esclamato con santa indignazione il cardinale Fisichella durante Anno Zero di Santoro, il che è giustissimo, ma allora esibisca un minimo di autocritica, se la prenda con se stesso, anziché con l’autore del documentario della Bbc.

Più a monte il contadino, come il ministro degli interni o il vescovo di Roma, dovrebbero forse porsi qualche domanda sulla cultura  (l’ambiente, il magazzino) delle loro istituzioni. Un’organizzazione come la chiesa cattolica che  pretende una sublime quanto innaturale castità dai suoi aderenti è statisticamente più predisposta a generare comportamenti sessuali anomali.  Un corpo i cui comandi enfatizzino eroismo e maschilismo, piuttosto che il ruolo di servizio al paese, volentieri lascerà germogliare inni fascisti nelle caserme, come in quella di Genova Bolzaneto durante il G8.

Oltre a tutto, non ci sono soltanto le mele marce ma anche le mele bacate, con il bruco dentro. Le marce non sono contagiose, mentre quelle bacate sì, nel senso che l’animaletto, avendo trovato un habitat favorevole, si riprodurrà veloce e andrà a infilarsi anche nelle mele sane lì vicino. Togliere dal cesto le mele marce serve a presentarsi al mercato con un assortimento allettante; il danno economico lo si è subito, ma si cerca almeno di vendere al meglio, ben lucidate, le mele sane. Così una rapida espulsione dal «cesto» della polizia, dei partiti, della curia, delle persone negative servirà almeno a tenere alta la reputazione del corpo nel suo complesso. Peccato che questa pulizia avvenga poco, sovente tardi, con molte omertà. Il processo sul G8 genovese, ancora in corso (e in attesa di inevitabile prescrizione) lo dimostra a ogni udienza. Non avendo la polizia fatto ordine in casa, anche i suoi meriti risultano macchiati. Avendo rimandato al mittente, senza nemmeno aprirle, le lettere ufficiali dei giudici statunitensi, al Vaticano risulta difficile vantarsi di aver fatto tutto quello che era in suo potere e dovere. Su questo la reticenza di monsignor Fisichella è stata elevatissima, a esplicita copertura del precedente segretario di stato cardinal Sodano.

Nel caso dei bachi, però, occorre agire diversamente per evitare che il danno aumenti perché appunto il fenomeno è epidemico, nel senso che a ogni successiva generazione di bachi il numero delle mele rovinate aumenta in maniera esponenziale. Nel caso delle epidemie, lo si sa da tempo, la migliore risposta è intanto la massime e veloce diffusione delle informazioni: se l’allevatore, vergognandosi, tiene nascosti i capi che gli muoiono in maniera strana, farà danno a se stesso e a tutti.  Gli stati asiatici che per una fase hanno celato il diffondersi della Sars hanno ritardato le ricerche sul virus e sui possibili vaccini. Monsignor Fisichella, acclamato come «Monsignor Coraggio» da Aldo Grasso sul Corriere della Sera, ha invano cercato di sminuire la forza dell’informazione, sostenendo che quello della Bbc non era un documentario, ma piuttosto un film, lasciando intendere che nel primo caso sarebbe stato una cosa seria, mentre nel secondo era solo un abile e parziale montaggio. Nulla tuttavia  ha potuto obbiettare al fatto che certi provvedimenti la sua chiesa li ha presi solo dopo le pubbliche e magari scandalistiche denunce sui media. Va a finire che i giornali (e la rete) sono davvero preziosi.

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Il Bazar dieci anni dopo

Posted by franco carlini su 7 giugno, 2007

Sono già trascorsi dieci anni, e sembra ieri, da quando Eric Raymond, allora un giovane programmatore della Pennsylvania , portò a un convegno una relazione dal titolo «La cattedrale e il bazar», che presto sarebbe divenuto un libro-manifesto (è disponibile anche in italiano). Raymond prendeva lo spunto dal sistema operativo per computer chiamato Linux teorizzando che era nato un nuovo modi di produzione, almeno del software, dove un gran numero di programmatori, ma connessi dalla rete internet avevano fatto il miracolo di realizzare un software valido e robusto, in spirito di cooperazione decentrata. Dunque quello che sembrava un caotico bazar si rivelava più efficiente dei modelli tradizionali di tipo ingegneristico. Le cattedrali, come noto, chiedono anche centinaia di anni a essere ultimate (e così molti megasoftware, come il recente Vista di Microsoft), i bazar invece possono fare di meglio. In sostanza la metafora alludeva a due modi di produzione, quello gerarchico e quello cooperativo (eventualmente altruista), lo stesso tema, ridiscusso e approfondito, un decennio dopo da Yohai Benkler («La ricchezza della rete», Bocconi). La questione non riguarda solo le produzione digitali, perché la crescita del movimento Open, ha esteso la riflessione anche ad altri campi dell’attività umana, talora concretamente, talaltra in maniera un po’ ideologica o volontaristica. Non c’è dubbio tuttavia che queste riflessioni teoriche, accompagnate da pratiche concrete market e non-market, sono state la vera novità anche politica degli ultimi anni. Il tutto si accompagna a due altre parole chiave: l’una è Commons (o beni comuni), espressione che sembrava totalmente desueta; l’altra è diversità, perché da essa dipende il successo dei modelli di cooperazione decentrata: se tutti la pensassero allo stesso modo, non ci sarebbe creatività alcuna. (sarah tobias)

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cellulari di lotta

Posted by franco carlini su 7 giugno, 2007

Le notizie dalla Cina non sono facili da controllare, ma secondo il Los Angeles Times, il sindaco di Xiamen, città da 1,5 milioni, nel sud est del paese, ha sospeso la costruzione di un impianto chimico che avrebbe dovuto produrre tonnellate di ParaXylene, un composto derivato dal petrolio, usato per produrre pellicole sottili e tessuti. Che però è altamente cancerogeno. Secondi il Shanghai Daily, una manifestazione di decine di migliaia di persone si era svolta venerdì scorso dalle 9 alle 17, malgrado l’appello delle autorità a studenti e dipendenti pubblici a non partecipare. C’è stato qualche scontro, ma alla fine sono stati concessi sei mesi di tempo per svolgere un’approfondita analisi ambientale. Prima della manifestazione l’invito a mobilitarsi aveva fatto la sua strada grazie agli Sms dei cellulari, di cui moltissimi cinesi sono dotati: «una volta che questo composto chimico velenoso sia prodotto, sarà come avere piazzato una bomba atomica a Xiamen» e i suoi abitanti correranno il rischio di leucemie e di deformazioni; «vogliamo le nostre vite e la nostra salute». Secondo alcuni ambientalisti locali non si sa chi abbia spedito il primo messaggio, ma esso sarebbe circolato un milione di volte e comunque è stato riprodotto in cartelli e scritte sui muri. Ai tempi della rivoluzione usavano i tatsebao, in quelli di Tiananmen circolavano i fax, ora è il momento dei cellulari, che hanno il pregio della propagazione virale, da persona a persona. E le autorità si sono sentite in dovere di prestare ascolto. I cinesi hanno ottenuto più udienza dei vicentini contro la base Usa: per Prodi la decisione è presa, è presa, è presa.

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Montezemolo, gran copione

Posted by franco carlini su 7 giugno, 2007

Parlando agli studenti della Luiss di Roma, Luca Cordero di Montezemolo ha ricordato di come al liceo fosse bravissimo nel  copiare  i compiti in classe: «Credo di non aver rivali per tecniche e sofisticatezza. Trovavo sempre il modo per mettermi vicino a uno bravo e generoso che mi permettesse di copiare». La dichiarazione del presidente della Confindustria, della Fiat, della Ferrari e di molte altre cose ancora, ha suscitato tre reazioni: a) Impossibile, l’avrà detto per scherzo, giusto per compiacere un’aula piena di studenti; b) Copiare, che male c’è? c) Quale vergogna e quale pessimo esempio, da parte di uno che predica la sana meritocrazia.  Sul copiare tuttavia sarà il caso di intendersi: c’è una copiatura parassita, diciamo «copia e incolla» dove l’unica dimostrazione di intelligenza sta nel trovare le fonti, si tratti del vicino di banco o di un sito internet. Poiché il copiatore si attribuisce il merito del testo, si tratta di plagio e comunque di disonestà, almeno morale. In questo caso la meritocrazia va ovviamente a farsi benedire. C’è però, anche, un copiare sano, quello che parte da un patrimonio di conoscenze diffuse, a esse si ispira, persino inconsciamente, e su di esse, con le debite virgolette al posto giusto, costruisce nuove idee, o almeno un “ordine del discorso”. Come disse uno dei grandi della fisica, Sir Isaac Newton, «se ho visto più lontano è perché stavo sulle spalle dei giganti», cioè ho fatto tesoro del patrimonio di sapienza dell’umanità. Anche senza essere Newton, siamo tutti un po’ così: usiamo la conoscenza accumulata come materia prima su cui edificarne altra, che si tratti di fisica o di pettegolezzi, poco importa. Le tecnologie digitali accentuano e facilitano tale riuso e rilancio. Si potrebbe dire: copia, integra, manipola – nel senso creativo del termine, condividi. (f. c.)

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Abbasso gli improvvisatori.

Posted by franco carlini su 7 giugno, 2007

Un imprenditore Usa contro la rete “amatoriale” troppo democratica

 NICOLA BRUNO

Se è vero che ogni grande movimento ha bisogno del suo bastian contrario, quello del web 2.0 è Andrew Keen, imprenditore della Silicon Valley e autore di un pamphlet polemico, «Cult of the Amateur», da ieri nelle librerie americane. Il libro vuole essere un grido d’allarme sui pericoli  cui è esposto il sistema di competenze e professionalità dell’industria dei media tradizionali, sempre più assediati dalle «scimmie» (il riferimento è alla metafora delle «scimmie dattilografe») di Wikipedia, YouTube e MySpace. Attraverso un’analisi al tempo stesso corrosiva e bigotta, distopica e faziosa, Keen offre non pochi spunti di riflessione sulle conseguenze di una rivoluzione ormai irreversibile. Si può dissentire su gran parte delle sue affermazioni, ma su un punto l’autore ha ragione: Internet non è la soluzione miracolosa per i problemi della società e della politica; pone nuove sfide, e anche più complesse.

La tesi centrale di «Cult of the Amateur» è che la democratizzazione dei media sta minacciando la nostra cultura. E la colpa è tutta degli strumenti amatoriali del cosiddetto web 2.0. Non pensa che questo approccio sia troppo deterministico? La tecnologia non è mai solo abilitante, il suo sviluppo rispecchia anche bisogni sociali e personali.
Giusta obiezione. Il mio saggio vuole essere una critica a una cultura capitalista sempre più individualista, in cui l’estetica, la conoscenza e la verità si muovono al di là della comunità e verso l’Io. L’assenza di intermediari è il sogno dei libertari sia di sinistra (contro-culturalisti) sia di destra (utopisti del mercato libero) che respingono ogni forma di autorità: dello stato, del testo, dell’autore, dei media. La sola autorità ammessa è l’Io, a sua volta mandata in frantumi dalla cultura dell’anonimato online. In questo senso la mia analisi vuole essere un nuovo capitolo della polemica culturale portata avanti da teorici americani come Neil Postman, Daniel Bell, Alan Bloom e Cristopher Lasch.

Perchè un professionista è migliore di un produttore amatoriale?
Buona domanda, mi spiego con un esempio. Prendiamo i primi minuti del Gattopardo di Visconti: siamo sopraffatti dalla sua eleganza, dal modo in cui la telecamera ci riporta nel passato. Poi guardiamo qualche short movie su YouTube, magari uno sulle bottiglie esplosive di Coca-Cola. O una donna col cappello da baseball che guarda in camera e fa dei risolini stupidi. O uno studente che scoreggia in faccia a qualcuno. O uno striptease volgare. O non guardiamo proprio niente… Visconti era un artista professionista, sostenuto dal complesso sistema economico dei media tradizionali. Quanto si trova su Internet è invece solo non-sense autoreferenziale, quello che io chiamo «narcisismo digitale».

Un altro motivo ricorrente del libro è l’elogio acritico (e, temo, nostalgico) dei media tradizionali. In diversi passaggi afferma che solo l’attuale sistema può garantire il confronto democratico, tralasciando del tutto i suoi potenziali usi e abusi. Si veda Judith Miller e i falsi scoop sull’Iraq.
Eh, Judith Miller… è il vecchio trucco antisocialista di ricorrere ai genocidi del regime di Stalin per dimostrare che nessun tipo di politica progressista potrà mai essere buona. Proviamo invece a ribaltare le cose. Judy Miller ha finito col rafforzare i media tradizionali. Certo, parliamo di una giornalista indegna, che ha non poche responsabilità per la guerra in Iraq. Ma ha anche procurato uno shock positivo al New York Times, spingendolo a ripensare i propri processi editoriali. E ora la testata sta facendo un lavoro decisamente migliore sulla guerra. Si legga John Burns, Dexter Filkins o Kirk Semple. Lo stesso Thomas Friedman ultimamente sta diventando più affidabile. La qualità, l’autorevolezza e la credibilità di questi giornalisti non ha niente a che vedere con la blogosfera. Non si diventa Burns o il grande reporter dai paesi arabi Robert Fisk sedendosi di fronte a un computer e pubblicando gratis il proprio lavoro.

E quindi dovremmo legittimare anche il ruolo consensuale dei media mainstream in paesi come la Cina, dove l’unica informazione credibile è quella indipendente?
Su questo hai ragione. Sono completamente a favore del web 2.0 in Cina e in altri stati non democratici. Il problema del web 2.0 sono le sue conseguenze nei paesi democratici. La sfida dei progressisti in Occidente non è l’azzeramento, ma la ricostruzione dell’autorità morale, politica e intellettuale. Altrimenti non avremo più alcun mezzo istituzionale per migliorare la società.

Altra obiezione: il problema non è tanto se le nuove tecnologie siano morali o meno, ma come guidare questo processo verso la qualità. E cioè come sviluppare piattaforme migliori, in grado di gestire la fiducia e favorire l’accuratezza, no?
Spero che il web 2.0 possa prima o poi dar vita a media di qualità. E’ ridicolo, però, che improvvisamente tutti si pongano la stessa domanda: con centinaia di milioni di video, blog e siti a disposizione, come dovremmo trovare le risorse di qualità? Il web 2.0 potrà funzionare solo reintroducendo elementi dell’ecosistema tradizionale e quindi gli intermediari. Bisognerà trovare un compromesso tra i media mainstream e quelli partecipativi. Nell’ultimo capitolo del libro indico alcune soluzioni possibili (Joost per i video, Citizendium per le enciclopedie, ndr).

La disintermediazione non è solo citizen journalism e YouTube. E’ anche collaborazione, economia del dono. Al riguardo lei scrive: «in ogni professione, quando non c’è un incentivo monetario o un premio, il lavoro creativo è in stallo». Ma il movimento open source sta dimostrando l’esatto contrario.
La collaborazione potrà funzionare per lo sviluppo del software, ma non è un modello applicabile a qualsiasi produzione creativa. Wikipedia è un buon esempio del fallimento del modello collaborativo in termini di produzione intellettuale: non c’è nessun giudizio editoriale o una definizione delle priorità. Così le voci sull’attrice soft-porn Pamela Anderson o sul Ceo della Apple Steve Jobs sono più approfondite di quelle su Hanna Arendt e Gramsci. E’ questo che vogliamo insegnare ai nostri figli, che la pornografia o un produttore di computer sono più importanti della filosofia politica?

Anche se distopica, è interessante la sua analisi sui rischi per la privacy. Perché parla di «democratizzazione dell’incubo orwelliano»?
Orwell temeva uno stato che controlla le strutture centrali dell’informazione. 1984 è il modello stalinista. Il web 2.0 azzera questa distopia. Ora tutti noi abbiamo videocamere e ci guardiamo a vicenda. La vera distopia profetica del XX secolo è «La finestra sul cortile» di Hitchcock. Se ogni telefonino ha una videocamera integrata, chiunque può assumere l’occhio investigativo di Jimmy Stewart e trasformarsi in un detective amatoriale che spia gli altri e butta tutto su Internet. Poi c’è Google, intenzionata a creare il database definitivo che conosce tutto quanto c’è da sapere su di noi. Google è il Grande Fratello del 21wsimo secolo. È la versione 2.0 di 1984.

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Intellettuali impauriti dal web

Posted by franco carlini su 7 giugno, 2007

SARAH TOBIAS

 

È vivace e polemica la discussione, soprattutto americana, di cui da qualche mese queste pagine stanno dando eco. I suoi contorni sono: il web 2.0 e le forme di produzione di contenuti dal basso; di conseguenza la loro rilevanza per gli affari, ma anche per la democrazia; la quale democrazia non è solo quella dentro la rete, ma quella generale, nella sfera pubblica; la quale a sua volta è malata da tempo. Temi che si sono fatti anche più caldi perché il luogo storico della società civile, i quotidiani, sono in sofferenza, economica e di ruolo e incalzati da siti e blog che magari danno informazioni più precise e opinioni più libere. L’intervista qui sopra al saggista imprenditore Andrew Keen ne è un chiaro esempio. In Italia il riflesso per ora è minimo, a conferma di uno storico ritardo. Uno dei pochi è stato un polemico articolo di Carlo Formenti (sul Corriere Economia) contro il mito del giornalismo dal basso.  

Va anche detto che nell’intervista  Keen smorza di molto i toni molto più polemici e persino reazionari di altri suoi scritti, tutti un po’ all’insegna del ripristino delle autorità e non solo delle autorevolezze che sarebbero minate dal dilagare dei contenuti generati dagli utenti (User Generated Contents). A polemizzare con lui, prima ancora che il libro fosse sugli scaffali si sono mossi in molti. Tra di loro il giurista di Stanford lessig che nel suo sito lo ha «decostruito», smontando una per una le affermazioni che volevano essere le più provocatorie e alla fine definendolo una caricatura.

Nel dipanarsi delle posizioni come non notare due titoli? L’uno è il libro del  2004 di James Surowiecki, intitolato «The Wisdom of Crowds», ovvero «La saggezza delle masse». Con relativo sottotitolo: «Perché i molti sono più intelligenti dei pochi e come il punto di vista collettivo plasma  gli affari, le economie e le nazioni». Sull’onda della metafora di rete, Surowiecki documentava  come in molti casi di incertezza i giudizi degli esperti siano peggiori di quelli ottenibili da una grande quantità di persone che non sono cultori della materia, ma statisticamente, ottengono risultati migliori.  Il secondo titolo, volutamente speculare, è «The Ignorance of Crowds», un saggio pubblicato di recente da Nicholas Carr per la rivista Business+Strategy.  L’autore è famoso per un suo precedente articolo sulla Harvard Business Review in cui sostenne che l’Information Technology, essendo ormai così diffusa, non garantisce più un vantaggio competitivo alle aziende che la usano. La sua nuova tesi è che solo in pochi casi, e con molte limitazioni, la produzione «da pari a pari» si rivela efficiente e creativa.

Queste polemiche sono un sano antidoto all’eccesso di rappresentazione che ha gonfiato le aspettative dell’internet dal basso, ma spesso, come nel caso di Keen, lasciano intravedere una vecchia ostilità verso gli strumenti che abilitano le singole persone a prendere la parole in proprio. È già successo molte volte nella storia dei media dove i chierici ogni volta esibiscono diffidenza e animosità verso il gran caos comunicativo.   

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